Moonrise Kingdom: ‘Una fuga d’amore’ Wes Anderson
Wes Anderson, film dopo film, ha ormai raffinato un proprio stile in tutto e per tutto riconoscibile e ben calibrato, che va molto al di là dell’autocitazione. Uno stile che, inoltre, attraverso una cura quasi ossessiva per il dettaglio e per la ricostruzione degli ambienti, dona ai suoi film una patina (per non dire un’aura) permeata da un’autonomia espressiva che fa sì che ogni suo film sia prima di tutto il risultato di una riflessione visiva, il prodotto di un’estetica reinventata che contribuisce alla ricreazione di un ben determinato ambiente (questa volta siamo in America negli anni Sessanta). “Moonrise Kingdom” è la storia di un amore folle e travolgente tra due adolescenti che agiscono come adulti, che hanno già sentimenti talmente maturi da far passare in secondo piano l’età prepuberale, spinti ad una fuga contro tutto e tutti pur di coronare il loro sogno di stare insieme, di unire le proprie sventure, se non per superarle almeno per affrontarle in due. Sullo sfondo di questa vicenda (che fonde Shakespeare con l’amour fou surrealista) si muove una strana umanità che pare invece incapace non solo di amare, ma anche solo di instaurare rapporti interpersonali dotati di una, pur solo apparente, stabilità.
La fuga degli innamorati è, quindi, prima di tutto fuga dalla crisi della famiglia e dalle crisi personali del mondo degli adulti, l’incontro di due personaggi saggi e weirdos allo stesso tempo, accomunati dalla stessa visione del mondo, svincolata dalla stranezza – vera – del mondo degli adulti. Lo stile del regista è, come sempre, descrittivo al massimo: lunghe carrellate orizzontali e verticali ci portano dentro i luoghi e le ambientazioni, descrivendone quasi la planimetria, sezionando gli spazi in maniera analitica (secondo uno schema che ha avuto il suo utilizzo massimo ne “Le avventure acquatiche di Steve Zissou”); l’uso dello zoom, poi, oltre a fornire un ennesimo e autentico tocco vintage alla tecnica cinematografica del regista, riesce ad isolare i sentimenti nei volti (e non solo), come a voler aprire una parentesi intimista all’interno di una narrazione di pura descrizione. Il cinema di Wes Anderson è fatto soprattutto di oggetti, trattati non come semplici riempitivi dello spazio, ma usati con una particolare funzione narrativa, al pari degli attori, e necessari, fondamentali a volte, nella caratterizzazione dei personaggi. Ecco dunque anche in Moonrise Kingdom tornare i libri, dai titoli e dalle copertine inventate, che tanta parte avevano avuto ne I Tenenbaum; ecco soprattutto un disco di Francoise Hardy, icona pop degli anni Sessanta, simbolo di un nascente riscatto, fosse anche solo immaginabile, della protagonista del film, e capace di esprimersi di per sé, come oggetto pregno di significato, e molto più eloquente di mille parole; e ancora i dischi, questa volta l’opera didattica del compositore inglese Benjamin Britten (le “Variations and Fugue on a Theme of Purcell”), che in maniera assolutamente geniale danno il la ad una colonna sonora al solito sapientemente utilizzata.
In questo film Anderson tratta con la sua consueta (e, potremmo dire, “calviniana”) leggerezza argomenti pesanti come macigni (l’abbandono, la depressione, la crisi di coppia), e riesce ad affrontarli in maniera diretta senza perdere un briciolo della sua ironia. Il film è tanto divertente quanto è strisciante l’aria malinconica che lo attraversa e lo minaccia, come la tempesta che sta per abbattersi sull’isola dove la storia è ambientata. L’umanità descritta da Anderson (e da Roman Coppola, co-sceneggiatore) è costantemente in crisi, alla ricerca di un ruolo che molto spesso le è impossibile anche solo immaginare, incapace di prendere posizioni forti e di provare sentimenti netti e precisi (a differenza dei due giovani protagonisti, i cui sentimenti sono solidi e indistruttibili): non ci sono mai veri cattivi, né buoni a tutto tondo. L’ambiguità è la caratteristica principale dei suoi personaggi (Royal Tenembaum insegna), tanto che l’amore è un sentimento che spinge ancora alla fuga, e la lontananza dalla persona amata è causa di uno classicissimo humor melancholicus. Ma la malinconia è prima di tutto un humor, e Moonrise Kingdom è soprattutto una commedia degli umori (e Anderson è uno dei registi contemporanei che meglio interpreta questa idea classica di senso dell’umorismo), una riflessione garbata che smaschera con intelligenza la crisi del quotidiano.
Caspita com’è scritto bene. Così pare possibile scrivere di cinema in modo interessante e preciso, competente ed accattivante, e allo stesso tempo riuscire chiaro e comprensibile. Si può condividere o no ma è stato piacevolissimo leggere l’articolo. Io condivido pure, e mi metto a leggere altre cose di Luca Verrelli.