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13 Gennaio 2025

La Stanza Accanto Pedro Almodóvar

2024 - Warner Bros

Regia di Pedro Almodóvar. Con Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro, Alessandro Nivola, Melina Matthews. Titolo originale: The Room Next Door. Genere Drammatico, - Spagna, 2024, durata 107 minuti. Uscita cinema giovedì 5 dicembre 2024 distribuito da Warner Bros Italia.

Pedro Almodóvar ha scritto pagine importanti della storia del cinema, iberico e internazionale: affermazione difficilmente contestabile finanche dagli scettici della prima ora. Da qualche tempo, però, l’estro del regista attraversa una fase di stallo: circostanza evidente persino ai sostenitori più accaniti. Lui stesso, verosimilmente, avverte uno scolorimento dell’ispirazione, e prova a confessare al pubblico le sensazioni di noia, stanchezza e declino in “Dolor y gloria”, l’opera dalle sembianze di testamento artistico. Pedro Almodovar, l’artefice di una rivoluzione nella Spagna bramosa di ossigeno, l’uomo che sfida apertamente i retaggi conservatori all’indomani della caduta del regime franchista. L’artista che dà voce alle ferite ereditate dal giogo del caudillo per mezzo di eccessi spregiudicati, tanto nell’utilizzo dei colori e delle forme (il rosso sgargiante travolge il riflesso cinereo del quarantennio autoritario, gli oggetti e gli indumenti eccentrici destrutturano le antiche rigidità), quanto nella rappresentazione del sesso – assiduamente promiscuo – come fonte di liberazione e, al contempo, grido di dolore. L’autore di un paradigma cinematografico che ne segna l’ascesa e la consacrazione – e non registra altri interpreti ugualmente abili nella Settima Arte – lo stilista di una linea immediatamente riconoscibile che, con l’incedere del tempo, assume le scomode vesti di un cliché nel quale rimane ingabbiato. I personaggi irrisolti, le passioni estreme e laceranti, gli intrecci ambigui dai risvolti disfunzionali, caratterizzano la poetica almodovariana sin dagli albori degli anni Ottanta: il regista miscela questi ingredienti con crescente maestria, sino a raggiungere – dopo un ventennio di perfezionamento espressivo – le vette universamente riconosciute de “Tutto su mia madre”, “Parla con lei” e “Volver”. Un canovaccio ricco e stratificato che, dal termine del primo decennio del XXI secolo, sembra ristagnare, ripiegato su se stesso, scevro di pulsioni innovative, appiattito su profili ridondanti, su narrazioni talvolta forzate e poco incisive: opere che, pur non manchevoli di pregi, emanano una luce fioca, ben lungi dal tradizionale fulgore del cineasta. Eppure, Pedro Almodovar, ad onta degli indizi crepuscolari, sente di avere ancora qualcosa da raccontare. Occorre una svolta. Una pacificazione con se stesso, con le origini, con i demoni: in questo modo, è possibile evadere dalla comfort zone autoriale. Il regista prova a chiudere i conti con i lati oscuri della storia iberica, che ha sempre cercato di proiettare sul grande schermo. Lo dichiara, probabilmente, nella sequenza finale della precedente opera “Madres paralelas”: il dissotterramento dei resti di alcune vittime della falange armata, dopo decenni di colpevoli silenzi, consente alle famiglie di piangere i loro antenati, e ricuce un taglio profondo mai medicato. Almodovar, ora che la sua amata Spagna ha la forza per camminare sulle proprie gambe, può sentirsi libero di esplorare nuovi lidi. Decide di approdare nella East Coast, lasciando nella terra d’origine molti dei vessilli che hanno costellato la sua filmografia. Rinuncia alla madrelingua, scommette sul primo lungometraggio in inglese. La macchina da presa ha un campo di azione inedito: nessun attore feticcio, nessun ricordo madrileno, nessuna queer, nessuna carnalità, nessuna ricerca dell’identità sessuale. Il regista sceglie un cast tipicamente hollywoodiano, le mille luci della Grande Mela, e una sceneggiatura asciutta per proiettare sullo schermo la sua idea. Eppure, a dispetto delle apparenze, riesce a conservare la propria natura. Riformarsi senza tradirsi: un’impresa nella quale riescono soltanto i fuoriclasse.

La stanza accanto” ha la piena essenza dello sguardo almodovariano. Al centro della scena ci sono, come da tradizione, personaggi femminili dal passato burrascoso. Martha e Ingrid, due amiche di vecchia data - sontuosamente interpretate da Julianne Moore e Tilda Swinton - si riuniscono dopo una lunga separazione cagionata da incomprensioni e competizioni, anche amorose, che rimangono a latere del racconto. Le protagoniste non denotano l’isteria straripante delle ribellioni postfranchiste, non indossano i conturbanti tacchi a spillo, non si lasciano soverchiare dagli istinti primordiali. Hanno una propensione introspettiva, lavorano per sottrazione, riescono a cogliere l’essenziale per godere del tempo a loro disposizione. Sono dotate, come tutte le muse almodovariane, di una straordinaria forza emotiva, grazie alla quale riescono a completare un profondo viaggio interiore. La tematica sociale rappresenta il cuore della pellicola. L’autore simbolo della campagna di sensibilizzazione verso la comunità Lgbtq+, questa volta, riflette sull’eutanasia, altra questione centrale nell’universo progressista, spesso bersaglio di istanze reazionarie.

Una delle due donne, infatti, è una malata allo stadio terminale, e vuole disporre della propria vita prima che le metastasi divorino i residui del corpo e dell’anima. Martha chiede all’amica ritrovata di sostenerla nella propria decisione, di accompagnarla nell’ultimo viaggio, di regalarle quel gesto di amore che lo Stato addita come un atto sovversivo. Questo travagliato percorso si sviluppa lungo gli abituali sentieri cromatici almodovariani: i colori accesi – con particolare riferimento al rosso e al giallo – inondano la scena con il loro bagliore accecante, e illuminano gli ultimi aneliti di vita della protagonista. Un’opzione stilistica che rivela la piena adesione alla libertà di scegliere l’eutanasia (non che ci fossero troppi dubbi al riguardo, considerando il dichiarato orientamento politico del castigliano). Un trionfo della morte: non l’evento violento in cui culminano le passioni tossiche di “Matador” o “La legge del desiderio”, ma un sobrio capitolo ineluttabile di ogni esistenza. Una morte da affrontare senza paura, da invitare all’ingresso principale, da accogliere con il vestito delle grandi occasioni, quando si intravede il capolinea del proprio viaggio. “Non ho mai visto due persone così felici”, esclama il commissario di “Matador” davanti ai corpi senza vita dei due amanti, in una delle scene culto della fusione tra Eros e Thanatos. Probabilmente, una felicità non troppo dissimile da quella designata sul volto placido di Martha nel momento della liberazione dal tormento. Pedro Almodovar, anche nella sua ultima fatica, celebra a più riprese l’arte come sublimazione dell’animo umano. In primis, entrambe le protagoniste svolgono una professione creativa: non lavorano nel cinema o nel teatro, come gran parte delle icone iberiche, ma, rispettivamente, nella letteratura e nel giornalismo. In secondo luogo, l’opera è densa di citazioni letterarie (“I morti”, ultimo atto dei “Dubliners” di James Joyce, quale candido arricchimento dell’atmosfera crepuscolare) e di richiami alla pittura (le pennellate in movimento di Edward Hopper e di altri esponenti del realismo americano). In particolare, sembra evidente un omaggio a “Il mondo di Christina” di Andrew Wyeth, una delle massime allegorie della solitudine umana dipinte nel Novecento.

Quella condizione di impotenza e smarrimento in cui versa la protagonista di fronte alla sorte infausta. Uno stato d’animo dal quale può fuggire scoprendo l’armonia con se stessa, la simbiosi con la natura che la circonda, la solidarietà di chi le sta accanto.­­­­ Risulta essenziale, nello sviluppo de “La stanza accanto”, un altro tema caratterizzante della grammatica almodovariana: il conflitto tra madre e figlia, la perdita e il ritrovamento (spesso tardivo). Martha è il prototipo del genitore fantasma, carente di istinto materno, poco avvezzo ai legami familiari, che antepone il successo professionale all’affetto destinato alla propria creatura. Ne consegue una frattura insanabile: nemmeno l’epilogo imminente sa ricucire lo squarcio. Una composizione, forse, è possibile post mortem. La protagonista germoglia negli occhi della ragazza – che le somiglia terribilmente – dal momento in cui quest’ultima decide di ripercorrere gli ultimi respiri materni. Siamo al cospetto di una rinascita, un po’ come quella dipinta dalla gravidanza di Alicia - contraltare della tragica morte di Benigno - nell’opera magna “Parla con lei”. “La stanza accanto”, invero, presenta taluni punti deboli. La verbosità di alcuni dialoghi rende la prima parte dell’opera eccessivamente didascalica. L’uomo conteso tra le due amiche, interpretato da John Turturro, appare debole e poco accattivante nella sua visione nichilista. Il poliziotto che indaga sulla morte di Martha – nonché su eventuali profili criminosi nella condotta di Ingrid – pregno di ideali oscurantisti, stona nell’equilibrio narrativo con la sua caratterizzazione enfatica, ai limiti del grottesco. Forse un cimelio (non in perfetto stato di conservazione) dell’antico repertorio almodovariano che, in questa fattispecie, risulta anacronistico e forzato. Le eventuali criticità, in definitiva, non inficiano la fattura di un’opera che, nel complesso, è dotata di una mirabile potenza visiva e narrativa. La pellicola si aggiudica il prestigioso Leone d’Oro alla Mostra Internazionale di Venezia, e riscuote i consensi pressoché unanimi da parte della critica. Verosimilmente, nel corso dei mesi, riuscirà a collezionare ulteriori riconoscimenti. Il regista castigliano, lungi dagli echi vespertini, vince la sua coraggiosa scommessa. Gli amanti della Settima Arte confidano nel principio di un nuovo, intenso, percorso artistico di un autore rigenerato. Il cinema ha ancora un grande bisogno della poetica di Pedro Almodovar.

Alessio Fugazzotto

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