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20 Novembre 2019 ,

Itasca Spring

2019 - Paradise Of Bachelors
[Uscita: 01/11/2019]

 

Ormai è diventato normale per molti artisti del nuovo millennio trovarsi un nome d’arte, o moniker come si dice adesso, quasi che il nome registrato all’anagrafe non fosse abbastanza indicativo o solo per far scervellare gli ascoltatori alla ricerca di significati oscuri dietro improbabili nomignoli. Tutta questa tirata serve solo ad introdurre l’ennesima voce femminile che si affaccia sulla ribalta della scena indipendente. Questa volta vi parliamo di Kayla Cohen, in arte Itasca, nome che dovrebbe essere un incrocio fra le parole verità e testa più che il semplice inizio del fiume Mississippi, il lago Itasca appunto. Lei è una ragazza della gigantesca metropoli losangelina, cresciuta a New York ma migrata sull’altra costa circa otto anni fa. Pochi mesi di permanenza nella West Coast e già circolavano i suoi primi acerbi cd-r seguiti nel 2014 dall’esordio adulto chiamato “Unmoored By Wind” presto catalogato come acid-folk anche se più vicino al lo-fi più classico. Ma il disco che ha fatto conoscere la Cohen ad un maggior numero di ascoltatori, si fa per dire, è stato il successivo “Open To Chance” (2016), lavoro di grande bellezza, purtroppo passato sotto silenzio da noi in Europa ma che ha riscosso un buon numero di critiche positive e apprezzamenti negli States. Con queste premesse il nuovo album doveva rappresentare la consacrazione di Itasca magari con un suono più pieno ed arrangiamenti più ricchi. “Spring” in parte tradisce queste attese ed è quanto di più somigliante ad un disco d’esordio piuttosto che a una vera e propria evoluzione sonora. Non che questo sia necessariamente un difetto, ma, nonostante l’aiuto di validi musicisti come Chris Cohen e Cooper Crain (Bitchin Bajas), anche dopo ripetuti ascolti l’album non riesce proprio a decollare senza presentare i picchi creativi del precedente album. In virtù anche di uno stile vocale non proprio variegato Kayla Cohen annoia un tantino l’ascoltatore e pare aver composto dieci canzoni al limite della copia carbone. Il sound potrebbe essere quello di un disco dei seventies, l’impostazione da classica songwriter, voce e chitarra come la prima Joni Mitchell, sembra essere un arma vincente ma qui sono proprio le idee e la brillantezza d’insieme a mancare, tanto che si fatica a consigliare anche solo due o tre tracce. Visto che più o meno tutte si equivalgono diciamo che una volta posto l’orecchio a Voice Of The Beloved, Plains e Golden Fields ci possiamo ritenere soddisfatti. Una vera occasione persa ed una delle più inattese défaillance dell’anno per una artista che sembra essere rimasta indietro rispetto ad altre colleghe che al contrario non conoscono battute d’arresto, vedi alla voce Bedouine e Weyes Blood tanto per citare due delle più brave.

Voto: 6/10
Ricardo Martillos

Audio

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