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10 Novembre 2016 , ,

Obed Marsh INNSMOUTH

2016 - Autoproduzione
[Uscita: 19/07/2016]

Australia  

 

Per il loro debutto gli australiani Obed Marsh optano per un raddoppiamento del riferimento al noto scrittore americano Lovecraft che si impone sin dal nome della band, che riproduce quello dell’immaginario capitano originario della fantastica città di Innsmouth. Si sa tuttavia quanto sia pericoloso esporre così laidamente i propri astri artistici rischiando di far torto a se stessi prima ancora che all’astro, essendo questo disattento ai suoi fan e per definizione sideralmente lontano da loro. E bisogna essere veramente bravi per comporre un’opera che non si contenti, come diceva Wagner, di salvare l’autore ma che attiri l’attenzione su di sé invece che su quella stessa incolmabile siderale distanza. Purtroppo non è questo il caso e Obed Marsh non vede Lovecraft neanche con il cannocchiale. Eppure il duo ci prova con tenacia a costruire atmosfere cupe, a tirare indietro drammaticamente il numero delle battute per minuto ma ciò che ne esce è un polpettone cinereo più che funereo con le misere spoglie carbonizzate di un intero genere raccolte in uno scrigno a favore di detrattori dal lazzo facile; o nel peggiore dei casi del morboso sguardo dei pochi appassionati della decomposizione.

 

Ascoltare gli abbondanti 7 minuti di Esoteric Order per credere. Ma più che la lunghezza poté la rassegnazione laddove l’essenzialità diventa sciatteria melodica (Usurpers) o la boria involontario sarcasmo come in Deficient. Forse bisognerebbe spiegare con il giusto tatto a Obed Marsh che scrivere un brano alla My Dying Bride non significa tirare giù quattro accordi e un riff di una normale canzone di 3 minuti e mezzo e poi suonarla il più lentamente possibile per superare i canonici otto minuti per aggrapparsi allo standard di lunghezza a tristezza garantita (Sleeping Wombs). Notevole d’altra parte l’uso che Sam Ford (foto a destra) fa della voce che vorrebbe esser vicina al miglior Dani Filth e invece sembra esser solo uscita dal ventre dolente dei nostri marsupiali amici, ancora qui la già citata Sleeping Wombs raccoglie insperati crediti in tal senso. Quanto alla estenuante Desquamate non c’è molto da raccontare se non che non è assolutamente possibile distinguere la differenza con un altro milione e mezzo di simili produzioni eruttate negli ultimi trent’anni sul globo terracqueo, la ratio è quella impressa da ogni gruppo doom metal alle proprie produzioni, dalla cantina adolescenziale fino alla edizione curata Peaceville, vale a dire distorsione, melodia deprimente, rullante squillante a risvegliare l’ascoltatore in debito d’attenzione e feralità d’atmosfera. Non c’è molto altro da aggiungere, solo forse che la lucente entità informe che suona il piffero anch’esso fulgido sulla copertina del disco disegnata da tal Mark Cooper è la cosa migliore dello stesso. Fate voi. 

 

Voto: 4/10
Luca Gori

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