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13 Giugno 2013

Stoker Chan-wook Park

2013

stokerPark Chan-wook esordisce negli Stati Uniti con un colpo da maestro. Con "Stoker" il regista coreano riesce dove molti suoi colleghi avevano fallito: entrare in maniera diretta e di peso nell’ottica del cinema hollywoodiano riuscendo a lasciare intatta la propria poetica e tutte le caratteristiche del proprio stile. Lì dove molti registi “in trasferta” non erano riusciti ad imporre il loro modo di fare cinema, Park non solo ci riesce, ma arriva a mettere al proprio servizio il cinema americano, e ad imbastire un film che è davvero il risultato di un incontro di due visioni (soprattutto con lo sceneggiatore, l’esordiente Wentworth Miller, già attore nella serie Prison Break), due modi di vedere il cinema che (per una volta) si fondono alla perfezione. Era forse dai tempi in cui Hollywood fu “invasa” dai registi tedeschi in fuga dal Nazismo (Lang, Siodmak, Wilder) che uno straniero di alta caratura (un autore) riesce a non farsi inglobare dal meccanismo degli studios, anzi a ribaltare il classico assunto secondo il quale Hollywood fagocita gli autori, ammansendoli, e limando gli spigoli più acuminati. Park mette in piedi un thriller di morbosa bellezza, rilegge una struttura da melodramma borghese alla luce del proprio rigore orientale, della propria durissima raffinatezza. Nel triangolo erotico-mortifero che viene a crearsi tra la giovane e  apparentemente fragile India (una splendida Mia Wasikowska), sua madre (Nicole Kidman) e lo zio Charlie (Matthew Goode), ammantato di ambiguità, fascino e mistero, con cui le due si ritrovano a vivere dopo la dipartita del padre della ragazza, si ripropongono gli stereotipi classici (nel senso proprio del termine) del melodramma e della tragedia, che vengono rivisitati da Park col solito acume che mescola novità e tradizione. Che Park sia un regista attento al “classico” non è una novità (esiste un tema più classico, dalla tragedia greca in poi, della vendetta?), e anche in questo caso il regista riesce a rimescolare sapientemente le carte in tavola, a rendere ancora malleabile il grumo della tradizione.

 

StokerLa radicale asetticità del cinema di Park si fonde con una fotografia opaca, da gotico americano (date uno sguardo alla locandina del film, e ditemi se non vi ricorda il famoso quadro di Grant Wood); tutto lavora alla rappresentazione di una pacata angoscia e di un latente orrore sempre sul punto d’esplodere. Le trame e le sottotrame si susseguono, in un montaggio ad incastri, che spiega tutto attraverso rapidi flash sul passato: la struttura del melodramma ruota attorno ai topoi costitutivi della tragedia, amore e morte, in una fuga centrifuga che dall’eros spinge insistentemente e con violenza verso thanatos. Un dramma, insomma, costruito su scariche di significato che si manifestano con quella rapidità di messa in scena che solo la vera tragedia sa allestire. In essa convivono spunti di teatro orientale (la stilizzazione, anche formale), tragedia classica e melodramma verdiano, con un preciso, e non casuale richiamo al Trovatore (e ci torna alla mente quella lettera di Verdi in cui il compositore scriveva alla contessa Maffei: “Dicono che quest’opera sia molto triste e che vi siano troppe morti. Ma infine nella vita tutto è morte! Cosa esiste?”. Parole che più d’un secolo dopo ben s’adattano al film del regista coreano).

 

Park col suo film americano torna inoltre a dimostrarci che confrontarsi con il cinema statunitense vuol dire, oggi ancora, fare i conti col più grande dei maestri hollywoodiani (e anche egli, guarda caso, uno straniero emigrato negli USA), quell’Alfred Hitchcock il cui cinema, più che da richiami diretti (una certa affinità con L’ombra del dubbio) è rivisitato stoker-mia-wasikowskanelle sue atmosfere e nei suoi temi principali: la colpa e l’innocenza, l’amore e la morte e i mille rovelli d’una personalità multiforme, nella propria psicosi. Ma, s’è detto, Park riesce a mantenere il proprio stile, quel rigore virtuosistico che aveva fatto grandi le sue opere precedenti. Una storia di (stra)ordinaria psicosi racchiusa in una confezione tanto algida quanto morbosamente accattivante; una educazione psico-criminale nascosta sotto le pieghe d’un tappeto alto-borghese che si schiude poco alla volta e si rovescia in una classica inversione di ruoli (in maniera ancora una volta hitchcockiana). Una messa in scena assolutamente geometrica (e Park in questo è davvero un maestro) esplora un interno borghese e le pulsioni d’una ragazza che fatica a tenere i pugni in tasca, capace di scatenare pulsioni di sesso e violenza di straordinaria potenza. Il tutto lavorando sulla stasi apparente delle situazioni, e svelandone al momento opportuno le dinamiche nascoste. I tre protagonisti incarnano alla perfezione le linee e i temi portanti del film: la sensualità disturbante eppure assai attrattiva della giovane protagonista (bravissima Mia Wasikowska ad impersonare un personaggio che è l’esatto opposto di quello che recitava in Restless), la bellezza sfatta di Nicole Kidman, la psicotica raffinatezza dello zio Charlie sono le facce d’una stessa medaglia, e Park gioca abilmente con queste continue inversioni di polarità nella caratterizzazione dei personaggi. Amore e morte, come nel più classico degli adagi,nicole-kidman-stoker-poster- sensualità del sangue e pulsioni della carne sono chiari epifenomeni d’una condizione disastrata che preme dall’interno, pronta a sconvolgere il rigore apparente d’una vita tranquilla, ma soprattutto delle immagini rappresentate, che proprio in queste sottili architetture trovano la loro estrema radicalità. Il discorso estetico di Park è pulsante di vita (e morte) fino nelle profondità più nascoste, in ogni stacco di montaggio, in ogni movimento di macchina. I virtuosismi sono il contraltare formale d’una vicenda fatta di stasi e movimento, di visibile ed invisibile, di interno ed esterno: di vita e morte. Il film si regge tutto sui contrasti (questo, in ultima analisi, il vero retaggio hitchcockiano dell’opera) e su questi contrasti fonda il proprio linguaggio tragico.

 

Luca Verrelli

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