Yo La Tengo WE’RE AN INDIE AMERICAN BAND
I N T R O
Yo La Tengo, provenienti da Hoboken, New Jersey, sono una delle band più importanti e influenti che la scena americana abbia mai partorito. Capitanati dal frontman Ira Kaplan hanno saputo congiungere un patrimonio esteso di eredità musicali in un suono continuamente in evoluzione e soprattutto mai scontato, non amorfo ma totale, impossibile da categorizzare o liquidare sotto una semplice etichetta. Insieme ad altri gruppi (Pavement, Dinosaur Jr, Sonic Youth in primis) hanno gettato a partire dalle ultime due decadi del secondo millennio le basi dell'estetica dell’indie rock moderno, quello dell’intellettualismo e dell’introversione, in contrasto con l’ideologia hardcore o DIY che aveva caratterizzato la prima ondata di band indipendenti. La loro operazione negli anni ’90 non fu quella di inventare semplici canzoni ispirate da Elliot Smith o Nick Drake, ma di trasportare il sentimento di malinconia metafisico insito nel songwriting di quei magnifici menestrelli dell'anima verso le direzioni più disparate, pagando pegno ai mostri sacri della sperimentazione newyorchese (Velvet Underground, Suicide, Television), ai padrini inglesi dei droni e dei feedback (Brian Eno, Jesus And Marychain, Loop, Spacemen 3), subendo sempre la fascinazione delle melodie dei sixties, in particolar modo dei Love di Arthur Lee, ma anche delle epiche cavalcate chitarristiche di un Neil Young.
Primi Anni (1984 – 1990)
L’espressione “Yo la tengo” fa prima parte di un aneddoto che coinvolse tre giocatori di baseball dei New York Mets: Richie Ashburn, esterno centro, e Elio Chacón, interbase, durante la stagione del ’62 si scontravano continuamente nell’esterno del campo. Ashburn, che correva per prendere la palla gridava: ”I got it! I got it!” a Chacón che parlava solo spagnolo. Così imparò in spagnolo “Yo la tengo! Yo la tengo!” (letteralmente: “ce l’ho”) e in un game successivo vide l’altro arretrare. A quel punto però, mentre si apprestava a prendere la palla, si vide correre incontro l’esterno sinistro, Frank Thomas, che non parlava spagnolo e che non aveva partecipato all’incontro della squadra in cui si era deciso l’uso dell’espressione per evitare scontri in campo. Dopo essersi rialzato Thomas chiese ad Ashburn: ”what the hell is yellow tango?”.
Ira Kaplan, di Hoboken, New Jersey, classe 1957, critico musicale per il New York Rocker e Village Voice, decise di fondare con la compagna Georgia Hubley un gruppo (lui voce e chitarra, lei voce e batteria) e il nome fu scelto proprio a causa dell’episodio e per la passione per i Mets, nel 1984. La prima uscita, dello stesso anno, è un 7’’ che contiene The River Of Water e una cover di Arthur Lee, A House Is Not A Motel (entrambe finiranno poi nel disco d’esordio) con Dave Schramm alla chitarra solista e Dave Rick al basso (che poi avrebbe lasciato e successivamente rimpiazzato da Mike Lewis). Il primo lavoro della band, del 1986, “Ride The Tiger” fu prodotto da Clint Conley, bassista dei Mission Burma, e uscì per Coyote Records: il disco riscosse un successo di critica molto positivo, grazie alle atmosfere bilanciate verso un garage a volte country, a volte figlio delle chitarre limpide e taglienti di Tom Verlaine. L’incipit fulminante di The Cone Of Silence cattura il gruppo in uno stato di grazia, tra il cantato reediano di Kaplan e le chitarre scintillanti di Schramm, che si evolvono nella psicosi garage ipnotica di The Evil That Men Do o nella ballata The Way Some People Die, nei beat e nei riff quasi surf di The Forest Green, The Empty Pool, nella tensione elettrica di Screaming Lead Ballons o nello strumentale rurale di Living In The Country.
È presente anche una cover dei Kinks, Big Sky. La traccia più lunga, The Pain Of Pain (così come la cadenza jingle di Alrock’s Bell) anticipa un modus operandi onirico e melodioso che farà la fortuna della band successivamente. Gli Yo la Tengo di Ride The Tiger esordiscono quindi come una formazione con una visione ben inquadrata e precisa e a ben guardare l’album resta una pietra miliare dell’indie rock anni ’90 e una delle migliori prove della band. Kaplan dimostrava non solo di saper scrivere canzoni ma da critico sapeva bene quali erano i gruppi intoccabili da cui attingere ispirazione. Ma nonostante questo, Ride The Tiger risentì soprattutto della chitarra di Schramm che ne decretava il vero valore aggiunto. Quando infatti lui e Lewis lasciarono la band, venne chiamato Stephan Wichnewski al basso e Kaplan assunse il ruolo di chitarrista solista.
Uscì così l’anno successivo, nel 1987, “New Wave Hot Dogs”, sempre per la Coyote Records, disco che riscosse un successo molto inferiore rispetto al precedente ma che tuttavia conferma una maturazione nel sound del gruppo. La scossa elettrica di Clunk è seguita dalla ballata Did I Tell You mentre House Fall Down fa di Kaplan il cugino strano dei rumorosi Sonic Youth; appaiono poi i flanger ariosi di Lewis, o lo strumentale acustico con tanto di tastiere sixties Lost In Bessemer. Compare ancora una cover, dei Velvet Underground, la maliziosa It’s Alright (The Way That You Live) (una demo del 1967 che comparve nella ristampa di "Peel Slowly And See") e i fuzz selvaggi di Let’s Compromise e Story Of Jazz gettano il seme per lo shoegazing feroce della band.
New Wave Hot Dogs si pone quindi come un album di passaggio, minore nell’opera omnia ma senza il quale lo stile tipico dei Yo La Tengo sarebbe venuto meno, un momento in cui la band si attiene ad essere una copia blanda di altri artisti (Velvet Underground, Television, Neil Young), gettando troppa carne al fuoco senza essere capace di focalizzarsi su uno stile ben preciso. Nello stesso anno comparirà anche un singolo, Asparagus Song, seguito da una cover di Neil Young, For The Turnstiles. Così, il passo successivo è “President Yo La Tengo”, del 1989, che esce sempre per la Coyote, prodotto da Gene Holder dei dB’s; come per New Wave Hot Dogs nonostante il successo di critica valga loro il plauso di giornalisti come Robert Christgau, le vendite rimangono limitate. L’album contiene solo 7 tracce, di cui due cover (una di Bob Dylan e una degli Antietam) e due versioni diverse di The Evil That Men Do (una bluesy e l’altra una spirale di distorsioni e tribalismi prolungati per 10 minuti). Restano impressi i rumorismi in loop della splendida Barnaby, Harldy Working ma che mal si accorda con la ballata acustica di Alyda. Mai come in questo momento (forse solo con il successivo “Fakebook”) gli Yo La Tengo soffrono una crisi identitaria: dilaniati tra anima rock’n’roll, sperimentale ed acustica i lavori di questo periodo risentono soprattutto dell'ispirazione dei numi tutelari di Kaplan, lasciando poco spazio alle rielaborazioni personali.
Tuttavia, eccezione fatta per Ride The Tiger che continua ad essere un unicum nella produzione della formazione, New Wave Hot Dogs e President Yo La Tengo sono dischi che mantengono molti momenti buoni, ma solo in relazione alla musica di altre band ed artisti, da cui si distaccano difficilmente. Sono i dischi che testimoniano l’iter musicale degli Yo La Tengo nel momento più difficile. Appare emblematico quindi “Fakebook” del 1990. Intanto, nell’anno che separa le due uscite sono cambiate diverse cose: Wichnewski ha lasciato il gruppo che ritrova invece la chitarra di Schramm e il rapporto con la Coyote è giunto alla fine. Fakebook uscirà per la Bar/None Records anche se sarà prodotto lo stesso da Gene Holder. Fakebook rappresenta il momento culminante di crisi in cui Kaplan si trova: l’album è essenzialmente una raccolta di cover acustiche più disparate (si va dai Flamin’ Groovies a Daniel Johnston, da John Cale a Cat Stevens passando per The Escorts e Ray Davies) più qualche inedito tra i quali spicca la delicata The Summer. Acquietatasi anche la forza esplosiva che a tratti emergeva negli altri due album, Fakebook esaurisce presto quello che ha da dire. Lo stesso Kaplan lo liquiderà anni dopo definendolo “una scusa per registrare con Dave Schramm e Al Greller”.
The Summer (1991 – 1993)
L'estate, una nuova calda stagione degli Yo La Tengo inizia in realtà nel 1992 con l’uscita di uno dei loro capolavori, “May I Sing With Me”. Nel 1991 che costituisce un anno di passaggio troviamo tuttavia un singolo in collaborazione con Daniel Johnston, “Speeding Motorcycle”, “Walking Away From You” (b-side: una cover dei Beat Happening, Cast A Shadow) e l’EP “That Is Yo La Tengo”, in cui Gene Holder compare come bassista. Alcuni dei brani dell’ep finiranno poi nel successivo LP. Tutto cambia ancora una volta: c’è una nuova etichetta, la Alias e un nuovo bassista, James McNew (attivo anche con il moniker Dump); l’apporto che McNew offrirà alla band sarà enorme, è il terzo membro definitivo della formazione, decisivo specialmente in May I Sing With Me e nel successivo “Painful”. La nuova era degli Yo La Tengo inizia al suono albeggiante e delicato di Detouring America With Horns che trova finalmente il bilanciamento ideale tra la ballata, le colate di chitarra, il beat insistito e il cantato sussurrato (per la prima volta) della Hubley a cui verranno delegati tutti i momenti più melodiosi dell’album: il power pop dopato di Upside Down, i riff circolari e onirici di Swing For Life, il raga americano di Always Something; a Kaplan restano i pezzi più selvaggi e distorti: la monumentale Mushroom Cloud Of Hiss (che decreta la Hubley come diretta discendente di Moe Tucker nel suo drumming selvaggio), la narcotica Five Cornered Drone (Crispy Duck), il garage incattivito di Some Kinda Fatigue, il beat a rotta di collo di 86 Seconds Blowout e il riff metallico di Out The Window. L’episodio conclusivo, Satellite vede i due duettare per un finale dalle false trame jazz ma che nasconde ancora una volta una trama melodica.
Rimane fuori uno strumentale, Sleeping Pill che insieme a Mushroom Cloud Of Hiss sancisce la nuova autentica identità del gruppo: non più macchietta o cover band di altri ma una formazione in grado di esplorare i fondali della sperimentazione chitarristica onirica e iper-rumorosa, piegata da riverberi, delay e fuzz. May I Sing With Me si impone grezzo e rude come una cima artistica che il gruppo saprà interiorizzare ma non superare. Nel 1993 la band dà una scossa di assestamento alla sua produzione pubblicando "Painful", album d’importanza centrale. Innanzitutto James McNew qui compare in ogni canzone: Kaplan stesso dichiarerà che si tratta del “vero primo album” degli Yo La Tengo; inoltre s’inaugura un sodalizio felice con la Matador Records (la celebre etichetta indie di Chris Lombardi) che dura tutt’ora e con il produttore Roger Moutenot (con il quale hanno pubblicato fino al recente “Fade”).
Painful porta le jam noise/sperimentali di May I Sing With Me verso un flusso ipnotico di ballate psichedeliche, decorate dai feedback e dai fuzz di Kaplan, letteralmente immerse nelle tastiere acide di McNew, mentre la Hubley canta sommessamente. Appaiono in ordine fulmineo brani destinati ad essere grandi classici della band come Big Day Coming, Nowhere Near, la lunga jam strumentale di I Heard You Looking. Le melodie pop si trasformano invece in singoli allucinati quali Sudden Organ, From a Motel 6, Double Dare. The Whole Of The Law (scritta da Peter Perrett degli Only Ones) è uno dei duetti più belli e malinconici della storia dell’indie rock. I Was The Fool Beside You For Too Long e la versione alternativa di Big Day Coming incalzano invece su riff più aspri e rocciosi. Painful non è la summa artistica degli Yo La Tengo ma quella più felice: l’amore per la melodia si fonde con la psichedelia, elevando la canzone pop a qualcosa di più etereo e sublime e sporcandola allo stesso tempo con distorsioni sognanti e tastiere ipnotiche. Una pietra miliare del suono psichedelico dei 90’s.
Il consolidamento (1995 - 1997)
Il successivo “Electr-o-pura” del ’95, registrato a Nashville, consta ancora della formula vincente di Painful; il suono si fa più scuro e ripetitivo, come nell’incalzante e vertiginosa Flying Lesson, nel loop iniziale di Decora, nella melodia sonica dei 9 minuti di Blue Line Swinger. Non mancano momenti più quieti (Don’t Say a Word), hit summer pop (Bitter End), ballate disturbate da twang e dub occasionali (My Heart’s Reflection). Nel 1997 esce “I Can Hear The Heart Beating As One” che sebbene ancora imbevuto della sbronza narcotica di Painful, pone le basi per il successivo “And Then Nothing Turned Itself Inside-Out”: Lo stile raffinato del trio si avverte tanto nelle cavalcate noise pop (Sugarcube, Deeper Into Movies, Little Honda, cover dei Beach Boys di Brian Wilson) che nei passaggi più sperimentali (Moby Octopad).
Torna l’estasi mistica in Damage e il passo si affretta nelle brevi ballate di Shadows e Stockholm Syndrome, che vede per la prima volta McNew alla voce (non può che ricordare il falsetto di un giovane Neil Young). Autumn Sweater introduce invece l’uso dell’elettronica; la misteriosa Green Arrow distende coltri di suoni rurali su cui lo slide di Kaplan si posa leggero; i dieci minuti di Spec Bebop strizzano l’occhio alle jam electro-kraut dei colleghi d’oltreoceano Stereolab; lo shoegaze sussurrato di We’re An American Band finisce nei suoni stridenti e cacofonici delle chitarre e precede la conclusiva cover di Bob Hilliard e Lee Pockriss, My Little Corner Of The World. Electr-o-pura e I Can Hear… si presentano come buonissimi album ma che vivono di rendita grazie alle idee di Painful: in sostanza, la band si “limita” a proporre sempre la solita formula (album del genere, composti da altri artisti, si sarebbero detti dei capolavori). Le cose cambieranno con la fine della decade e l’arrivo del terzo millennio.
Our way to fall (2000-2003)
Il nome del nono album degli Yo La Tengo pare che derivi da una citazione di Sun Ra:”It was nothing…and then nothing turned itself inside-out and became something”. Paradossalmente gli Yo La Tengo “rivoltano” il proprio sound ma lo trascinano verso lidi più introversi. La forza della band non sta quindi nell’aver realizzato un'altra pietra miliare, ma nella messa in discussione del proprio operato. ”And Then Nothing Turned Itself Inside-Out" si presenta inoltre come l’album che meglio può rappresentare lo stile degli Yo La Tengoa a chi non gli si fosse mai avvicinato. L’incipit spiazzante del misticismo nichilista di Everyday - droni di tastiera che si scontrano contro refrain chitarristici - si sciolgono nella delicata e vibrante Our Way To Fall, mentre Saturday e Tired Hippo guardano alle sperimentazioni elettroniche dei Can di “Future Days”. Let’s Save Tony Orlando’s House, insieme a Madeline introduce melodie dal vago sapore caraibico filtrate dalle tastiere e dai bassi distorti.
Sulla scia delle ballate, Kaplan e soci sciorinano Last Days Of Disco, The Crying Of Lot G, From Black To Blue mentre You Can Have It All (un’altra cover, rubata al mondo della disco music anni ’70, di George McCrae) diventa il perfetto singolo–biglietto da visita, ipnotico e melodico. Solo a Cherry Chapstick è dato il ruolo di assalto noise–shoegaze, nel quale le chitarre strillano e la batteria martella per oltre sei minuti. La ballata crepuscolare di Night Falls On Hoboken si trasforma in una lunga jam notturna con i suoi - addirittura- 17 minuti.
And Then Nothing… salva gli Yo La Tengo dal diventare parodie di se stessi, anche non raggiungendo l’eccellenza. Inaugura un nuovo percorso per la band che sfocerà nel 2002 con la collaborazione con il regista francese Jean Painlevé, episodio assolutamente non trascurabile. Esce infatti per la Egon Records, “The Sounds Of Sounds Of Science” colonna sonora del film del regista parigino “The Sound Of Science”, documentario sulla vita sottomarina. La band sforna 78 minuti (per 8 tracce) di musica strumentale da associare alle immagini del film: lunghe jam session composte da fraseggi in loop dal sapore subacqueo, ovattato, dove la melodia emerge a sprazzi, annegata in un mare psichedelico, che confermano ancora una volta la completezza e lo spirito sperimentale del gruppo: da ascoltare i tribalismi wah wah di Shrimp Stories e da esplorare gli abissi marini di Sea Urchins.
Entrambe le esperienze (And Then Nothing… e The Sounds Of…) confluiranno poi nel successivo “Summer Sun”: a causa della morte della madre della Hubley (Faith Hubley, famosa disegnatrice di cartoni animati sperimentali, insieme al marito John), avvenuta prima della composizione del disco, il pianoforte di casa Hubley entrerà nella sala prove del gruppo a Jersey City e diventerà lo strumento centrale di tutto l’album. L’album manca di una vera e propria parte rock, dedicandosi a melodie e atmosfere sperimentali: la ninna nanna ambient (che anticipa di anni la chill-wave) di Beach Party Tonight è il preludio al motorik pop di Little Eyes, allo slide hawaiiano dell’indimenticabile Today Is The Day, alla bossanova di Season Of The Shark, alla languida Take Care. Accantonata la perversione reediana della voce, Kaplan trova una nuova dimensione di crooner in vacanza in Sud America (Tiny Birds, scritta da McNew, How To Make A Baby Elephant Float, Don’t Have To Be So Sad) senza mai lasciare gli Stati Uniti del tutto però: gli sprazzi più movimentati guardano ancora alla sperimentazione guidati dal beat e dai passi blues del pianoforte, conditi dalle sferragliate della chitarra (Georgia Vs. Yo La Tengo, Moonrock Mambo, Winter A-Go-Go). Let’s Be Still è una fanfare colorata che ambisce alla trance psichedelica per più di 10 minuti.
Ultimi anni (2006-2015)
Gli stessi 10 minuti che aprono il successivo “I’m Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass” del 2006, nella rumorosa jam (ormai un’opzione classica della band) di Pass In the Hatchet I Think I’m Goodkind. L’afflato di Summer Sun si riscontra ancora nella sezione fiati di Beanbag Chair, Mr Though, nel motorik dolce di The Race Is On Again o nella ondivaga filastrocca di The Room Got Heavy. Non mancano le ballate (Black Flowers, I Feel Like Going Home) e le jam sia sperimentali (Daphnia) sia noise pop (Story Of Yo La Tango), oppure composizioni più movimentate (Watch Out For Me Ronnie, I Should Have Known Better).
I’m Not Afraid… è il prodotto di una band che non ignora i dubbi e sa mettersi in discussione, al punto da realizzare un disco (non necessariamente bello) mai banale anche se paradigmatico. Album, comunque sia, decisamente interlocutorio come il successivo “Popular Songs” del 2009, che segue lo stesso andamento. Lavoro con risvolti psichedelici (More Stars Than There Are In Heaven, And The Glitter Is Gone), momenti ispirati dalle melodie anni ’60 (Nothing To Hide, Here To Fall, When It’s Dark), tappeti acustici (The Fireside) o stravaganti esperimenti orchestrali (If it’s true). La sensazione di fronte a questi ultimi due album è che con Summer Sunla band abbia chiuso un cerchio e che quello che produce da allora sia solo materiale sebbene di altissima qualità, artisticamente minore. In quest’ultima fase gli Yo La Tengo portano avanti le loro istanze artistiche con semplici esercizi di stile che scacciano la banalità senza tuttavia essere incisivi.
Il discorso non cambia con “Fade” del 2013, primo disco dal lontano ’93 di Painful a non essere prodotto da Moutenot ma dal batterista dei Tortoise, John McEntire: l’album consta di episodi per lo più trascurabili e per la prima volta si palesa il timore che gli Yo La Tengo annoino. L’iniziale Ohm è un’azzeccata creatura d’ispida elettricità, I’ll Be Around coniuga i droni ambient con una ballata di folk scarno. A ben vedere sono forse gli unici momenti entusiasmanti dell’intero lotto, costituito per lo più da melodie pop riciclate e ballate già sentite, sotto le spoglie di un blando noise pop da camera. Nel dicembre del 2014 la band pubblica la versione estesa di Painful, “Extra Painful” che aggiunge inediti, demo, versioni acustiche e live dei brani dell’epoca.
A fine Agosto 2015 esce il loro nuovo, ottimo album in studio: "Stuff Like That There", dove ritorna in formazione Dave Schramm alla chitarra dopo 25 anni di assenza, ma anche il vecchio amore delle cover riverniciate e personalizzate secondo la loro personalissima estetica, sublimato in precedenza in Fakebook. Un secondo esaltante capitolo a tutti gli effetti di quel disco. Gli Yo La Tengo hanno sempre avuto un successo minore e rimangono un gruppo oscuro ai più, venendo spesso definiti come “la quintessenza del gruppo per critici”, mantenendo un pubblico sicuramente sparuto e molto affezionato. Nonostante questo non si può prescindere dalla loro operazione storica, dall’apporto non filologico né didascalico ma semplicemente astuto, imprevedibile e a tratti sardonico con cui hanno saputo sporcarsi le mani e sconvolgere le carte nella tavola del rock americano e non degli ultimi 20 anni. Con la speranza che la loro opera diventi sempre meno un’esperienza “per critici” e sempre più un’occasione imprescindibile per “tutti gli ascoltatori”.
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