Dead Meadow WARBLE WOMB
[Uscita: 7/10/2013]
In natura esiste un elemento che per proprietà è prossimo alla musica dei Dead Meadow. Così come il mercurio, la loro è una psichedelia densa ma sfuggente, pesante ma fluente, dai vapori fluorescenti. Il terzetto si compone di una possente sezione ritmica con il basso di Steve Killey, un Rickenbacker dal classico timbro profondo e ruggente e le sue linee che vanno a incastrarsi nei tempi scomposti della batteria di Mark Laughlin. Quest’ultimo già partecipe ai primi due importanti album della band “Dead Meadow” (2000) e “Howls from the Hills” (2001), con “Warble Womb” rientra a far parte della line-up a distanza di 11 anni. E poi lui, Jason Simon che irrora il suolo con piogge acide di fuzz e un uso insistente del wah wah, e il cantato, malinconico, ricercato più a livello melodico che vocale. Nei loro quasi quindici anni di attività si sono distinti nel calderone del rinato interesse per la psichedelia, che ha portato in auge band come Black Angels, Warlocks o BJM, per una commistione orientata tra folk e stoner-rock, piuttosto che cercare riferimento nel comune denominatore (Velvet ed Elevators su tutti) delle band citate. Questo loro malgrado li ha tenuti un po’ in disparte e per qualche motivo non li ha degnati di altrettanta meritata attenzione. Oltre al fatto che di tanto in tanto hanno fatto perdere le loro tracce, tanto che ci son voluti tre anni per poter finalmente sentire questo sesto album.
Optando per un etichetta minore rispetto alla Matador con la quale avevano firmato per i tre precedenti lavori (“Shivering King and Others”, “Feathers” e “Old Growth”), questa scelta li vede anche stilisticamente ritornare ai loro più radicali approcci iniziali, un’attenzione più orientata sul versante sonoro capace di evocare atmosfere personali e inconfondibili, piuttosto che concedersi al pezzo memorabile come poteva essere per il loro periodo più “Indie”. Un passo indietro verso la fonte alla ricerca di purezza? Chi può dirlo, ad ogni modo in questi 75 minuti suddivisi in quindici tracce, non si sono certo risparmiati, pregni della loro essenza, spesso e volentieri riecheggianti di Hendrix e Blue Cheer, non disdegnano qualche tentativo più sperimentale, peraltro ben riuscito, come in Copper is restless (‘til turn sto gold) dove umori caldi e umidi tra dub e reggae dilatano la materia, l’orientaleggiante title-track, le ballad folk-psych One more toll taker e la carezzevole e quasi beatlesiana Mr. Chesty, anche se i momenti più apprezzabili sono proprio quelli che si riflettono nella classicità del gruppo (1000 Dreams, Six to let the light shine thru, Rains in the desert ). Nell’insieme si tratta di un lavoro meritevole dove ancora una volta spicca una notevole personalità, anche se l’esito sembra più condizionato dal bisogno di riconfermare se stessi piuttosto che di rinnovarsi esplorando nuove vie. I Dead Meadow sembrano arrivati a questo punto per ricominciare da zero, un po’ più smaliziati sicuramente, ma senza spiccare quel balzo che tanto ci si auspicava.
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