The Dandy Warhols THIS MACHINE
[Uscita: 24/04/2012]
I Dandy Warhols, fin dal nome, han sempre fatto del lato estetico il loro credo, pur col rischio di rendersi poco credibili per via di quel loro appeal da copertina patinata di teen-magazine, soprattutto Courtney-Taylor Taylor leader più narcisista che carismatico, firmatario di tutte le composizioni del gruppo. Tanto che chi non avesse avuto modo di approfondire la loro discografia potrebbe giustamente chiedersi se musicalmente abbiano mai fatto qualcosa di valido. Ebbene sì, c’è stato un momento in cui riuscivano ad essere propositivi e quasi credibili, quando a metà degli anni ’90 sotto l’ala protettrice dell’onnipresente Anthon Newcombe (Brian Jonestown Massacre), giocavano al botta risposta d’oltreoceano col Brit-Pop inglese, votati ad un connubio pop/psichedelico tra l'archetipo di Lou Reed e Co., ma col cuore nella London di Bowie, Stones, T.Rex.
Di quegli anni ricordiamo volentieri l’esordio “Dandy rules Ok.”, “Dandy Warhols come down” e “The Black Album” raccolta di B-sides e demo all’epoca rifiutati dalla Capitol, e ripubblicato successivamente nel 2004. Con “Thirteen Tales from Urban Bohemian” , ancora in buona parte apprezzabile, faranno Bingo grazie a un singolo che farà il giro del mondo, Bohemian like you, che da noi si imporrà soprattutto grazie allo spot di un noto operatore telefonico. Via via con la fine del decennio hanno tentato di combinare un sempre più scontato citazionismo tra il rock più classico e le sonorità elettroniche e dance di fine millennio, perdendo sulla distanza il confronto con l’esempio di Primal Scream o Blur. E a poco è valso il ritorno di fiamma dell’appena sufficiente “Odditorium (or Warlords from Mars)”, che ha provato a riportarli sull’onda più “glam” degli esordi, così come parallelamente le collaborazioni con Beastie Boys, o i remix di Russel Elevado, o Mousse T. sul versante più danzereccio.
E’ nutrendo una certa aspettativa che mi avvicino a questo nuovo lavoro della band di Portland, confidando nell’incentivo datogli dalla necessità di riscattarsi. Di tempo per meditarlo ne hanno avuto, a distanza di tre anni dal men che mediocre “..Earth to the Dandy Warhols..”, e in un momento di innegabile declino di carriera, non avrebbe potuto non convenirne un utile esame di coscienza. E invece così non è stato. Il risultato sono undici tracce noiosissime di dark pop annacquato, da serie televisiva di un pomeriggio su Italia Uno. Il tiepido avvio di Sad vacation, rimane di fatto inchiodato lì, senza soluzione di continuità. Courtney Taylor insiste con un cantato sommesso, sussurrato e sensuale che riproposto per tutto l’album diventa tanto forzato quanto ridicolo, ad eccezione di un paio di esperimenti gutturali (Enjoy yourself, 16 Tons) in cui forse è pure peggio. A tratti si coglie pure qualche velata malinconia “new romantic” anni 80 (non a caso fu Nick Rhodes dei Duran Duran a produrgli “Welcome to the monkey house”) come in The autumn carnival scritta con David J dei Bauhaus, o nel primo singolo estratto Well they’re gone, e la conclusiva Slide. L’imbarazzante banalità della quinta traccia, Alternative power to the people, fa venir voglia di estrarre il CD e non proseguire oltre.
Al di là della scelta stilistica, le canzoni mancano di ispirazione, c’è solo una gran cura della forma, grandi mezzi ma poche idee. Sebbene abbiano sentito l’esigenza di autoprodursi, il frutto di questa nuova fatica suona più come un espediente per battere cassa sfruttando il nome della band, mentre il leader è sempre più attratto dall’ambito cinematografico, Zia McCabe divisa tra la vita matrimoniale e quella di rockstar e Peter Holmström prosegue con il suo side-project, Pete International Airport, sulle stesse coordinate, ma nell’anonimato più totale. Il meglio del lavoro è dato dall’attenzione alla produzione che sicuramente lo confeziona bene, come un bel tetrabrik variopinto, salvo accorgersi che si tratta di succo di frutta scaduto.
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