Josh Rouse LOVE IN THE MODERN AGE
[Uscita: 13/04/2018]
Stati Uniti
E' una bella storia da raccontare quella di Josh Rouse, quarantaseienne originario del Nebraska, cresciuto immaginandosi un futuro da singer-songwriter con le mani in pasta nel folk-rock e nel roots di casa sua (tra i primi dischi, quelli che lo fecero emergere come autore con le radici nel suono più rurale d'America, impossibile non segnalare "Home" del 2000, "Under the cold blue stars" del 2002 e "1972" uscito subito dopo), poi passato attraverso diverse fasi che ne hanno modificato sostanzialmente il profilo. Oggi siamo davanti a un artista che dopo il fallimento del suo matrimonio e la successiva ricollocazione in Spagna (la sua seconda patria, toccata a intermittenza, da residente e da visitatore praticante musica) ha fatto tesoro di una fase un po' oscura e titubante del suo percorso (alcuni dischi d'inizio millennio, fino al 2011, dove spuntavano anche influenze latin) per ritrovarsi e sbocciare come fosse un fiore di nuova concezione, dal colore adatto ai tempi. Niente più tinte stonewashed adatte alla canzone d'autore che profuma di passato e chitarre acustiche, largo a un pop più leggero, da prima metà degli anni Ottanta, quasi adolescenziale come impatto, che col suo cantare di solitari un po' ombrosi ma mai stanchi di cercare, porta alla mente tante band emerse nell'Inghilterra del vero Brit Pop prima che arrivasse, dieci anni più tardi quello di seconda ondata capeggiato dagli Oasis e compagnia.
A un primo ascolto, specie nella prima parte del disco, sembra di tornare nell'Inghilterra dei Lotus Eaters, degli Atzec Camera di Roddy Frame, di certi Tears for fears, degli Style Council e degli Everything but the girl, fino a proporre gradite tracce di Lloyd Cole (la conclusiva, bellissima There was a time). In quella gentilezza vocale mista a un po' di elettronica (ma non senza chitarre toccate con raffinatezza) c'è la spiegazione di un cambiamento di pelle davvero sorprendente. Josh Rouse non è più quello d'inizio millennio, decisamente non lo è più. Ha lasciato il posto ad una rassicurante nostalgia tutta spostata ad est rispetto al suo punto di partenza, a quella malinconia sussurrata che albergava anche nei lavori degli scozzesi Blue Nile. Abbiamo perso un folksinger che forse più in là di dove era arrivato non poteva andare, ma l'acquisto, un soddisfatto, sereno, romantico, certamente appagato autore di canzoni un po' camaleontico, ci convince più del previsto. Love in the modern age forma con i due precedenti "The Happiness Waltz" e "The Embers of Time" un trittico che parla senz'altro di rinascita.
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