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26 Aprile 2016 ,

Riverweed FULL MOON

27 ottobre 2015 - Autoproduzione

Un film di qualche anno fa collocava il nord-est italiano in un deserto dell’anima al quale dava il nome di Texas. A distanza di qualche anno di distanza il duo Riverweed -formato da Alessandro Cocchetto (chitarre e voce) e Filippo Ceron (batteria e voce)- torna sull’argomento con un intrigante EP autoprodotto dal titolo "Full Moon". E torna sull’argomento per dirci che non tutto è deserto, che da quelle parti - a zonzo tra lo spirito e il trevigiano – si muove da sempre qualcosa; per dirci che ogni Texas ha accanto la sua Louisiana.

 

"Full Moon" è esattamente questo clamore delle cose, un'attitudine alla ricerca di un altrove fisico e sonoro all'assenza di prospettiva. Credo si possa interpretare in questo modo la originale mistura di Blues, industrial e rock che pervade tutto il disco portando una ventata di buon umore nell’OMI (Obitorio Musicale Italia). The Mole, che apre il disco, è il manifesto di questa strategia espressiva nella quale, a partire da una malinconica attitudine blues, si fondono in un recipiente quasi-industrial Queen Of The Stone Age e Creedence Clearwater Revival. Il risultato è potente, molto accattivante e Riverweed non molla facilmente la presa una volta individuata la giusta alchimia, tanto più che i sei brani di cui è composto l’Ep possono essere considerati senza meno una chiosa che si limita a modulare o specificare un aspetto della vena creativa principale. È così che Manipulate Me inserisce in questo contesto un elemento che tenta di approfondire la retorica melodica della band, giocando con linee vocali uscite in blocco dal brit-pop di 20 anni fa.

 

Barefoot Blues tenta invece il dialogo con esperienze musicali più vicine e meno mainstream mimando scientemente la maniera dei Bud Spencer Blues Explosion in modo così delicato da apparire al tempo stesso un omaggio e una presa di distanza verso lidi più personali dicendo qualcosa che suona più o meno così: «Grazie per aver aperto il discorso e averci invitato, noi tuttavia la pensiamo così». È quindi la volta di Homo Sapiens che si lascia ascoltare senza troppi patemi d’animo e nella quale emerge con forza l’influenza di Black Keys, solo per non andare in terre poco battute e prendere al balzo il riferimento. Tank rilegge invece a modo suo la storia del rock proponendo i frammenti di un discorso Hendrixiano all’ascoltatore sorpreso che trova tecnica laddove pensava di trovare White Stripes. A chiudere questa splendida rapida cavalcata arriva allora Flower Dust, forse realmente il fiore più polveroso tra quelli esposti nella vetrina Riverwood, un fiore attraversato tra troppi innesti che ne hanno reso sintetico l’aspetto e sottratto ogni odore.

 

Non facciamo difficoltà tuttavia a salutare "Full Moon" come un gioiello grezzo ed inaspettato, confezionato magistralmente da mano sapienti in una fase di registrazione accurata e capace di dare seguito ad un'idea precisa di ascolto e restituzione sonora; mani sapienti che hanno esaltato ogni sfaccettatura di un materiale difficile da maneggiare e molto poco duttile. Non nascondiamo un certo entusiasmo e una fervida attesa in vista di un tour nazionale che auspichiamo con vigore.

Luca Gori

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