Silvia Conti Ho Un Piano B
Distilla con accuratezza e parsimonia le sue uscite discografiche la fiorentina Silvia Conti, qui al suo secondo lavoro che vede la luce a sette anni dall’esordio, ma non è certo stata con le mani in mano viste le sue attività come attrice e le partecipazioni in dischi altrui. Del resto la Conti ha una lunga carriera alle spalle fin da quando nel 1983 vinse il festival di Castrocaro e due anni dopo salì sul palco di Sanremo. È un momento felice per la scena cantautorale fiorentina dalla quale nel giro di pochi mesi hanno visto la luce le opere di Marco Cantini “Zero Moltiplica Tutto”, di Massimiliano Larocca “Daimon” e ora questo più che convincente “Ho Un Piano B” di Silvia Conti. Il disco, che ha avuto una complicata gestazione causa lockdown, la Conti ha deciso di farlo uscire contestualmente al libro scritto dal padre “Gli Anni Sprecati” sulla sua esperienza da partigiano nei Balcani, un legame familiare e ideale rimarcato non solo da un brano come Inverno 1944 (Mačkatica) ispirato dalle pagine paterne, ma dal senso di libertà e ribellione che promana dalle varie tracce i cui testi affrontano aspetti controversi della vita di oggi, sempre vista dalla parte degli ultimi. Ma veniamo alla musica e in primis alla voce della Conti che ha un timbro molto particolare e ben riconoscibile, fumoso, roco che ben si adatta alle ballate dal piglio rock blues del disco. Già, il disco ha indubbiamente un’anima rock, la foto della copertina è un riconoscibilissimo riferimento a Patti Smith, e la prima traccia, Lucciola scritta da Bob Mangione, richiama la grinta di una Nannini o di una Berté perfetta per l’argomento del femminicidio affrontato. L’universo femminile è al centro dell’intimista Moltitudini, poetica riflessione sulle contraddizione e le inquietudini e ansie, ma anche delle risorse che le consentono di affrontare la vita («E mi difendo dalle lame / con un sorriso incontenibile») e Farfalla, sul tema del bullismo e della derisione nei confronti di una donna il cui corpo non corrisponde agli stereotipi dominanti, musicalmente la prima è un’originale via di mezzo fra un valzer e un country, mentre la seconda inizia lenta per poi esplodere nel momento della metamorfosi. Infine segnaliamo la splendida L’Uomo Della Montagna, nove ipnotici minuti con pochissime variazioni nei suoni, il testo è un invito a lasciar parlare la montagna per riscoprire se stessi al di là delle meschinità del mondo e il duo dedicato alla lotta partigiana Inverno 1944 (Mačkatica), solenne e drammatica, e la rilettura in chiave balcanica di Bella Ciao. Se i testi sono davvero un punto di forza del disco, mai banali, intriganti, ricchi di citazioni, profondi, anche gli arrangiamenti curati dalla stessa Conti, da Bob Mangione e da Gianfilippo Boni, appaiono perfettamente in linea con le atmosfere dei brani, arricchendoli con una gran varietà di suoni e strumenti che ne sottolineano la forza emozionale.
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