Grizzly Bear PAINTED RUINS
[Uscita: 18/08/2017]
Stati Uniti
Istruzioni per l'uso: da ascoltare 5 volte. Non lo diciamo noi, sono parole di Ed Droste, cantante, frontman e mente dei Grizzly Bear, consapevole del fatto che “Painted Ruins” non è un album di presa immediata, immerso com'è in una complessità barocca, ingombrante e artificioso frutto di un collettivo sforzo sommatorio, tratto distintivo saliente, la raison d'être di un lavoro penalizzato da angosce prestazionali.
La sorte che affligge una band che lotta per superare i propri limiti rinunciando alla libertà creativa garantita da una piccola label per indossare completi formali negli uffici di una una major. Si può restare avanguardisti se si molla la Warp e ci si vende ad un colosso come l'RCA? Il loro “Shields” del 2012 ha avuto successo ma ha esaurito le loro forze, al punto che, finita la tournée, hanno deciso di prendersi un anno sabbatico. Poi gli anni sono diventati 5, i quattro di Brooklyn si sono separati, Rossen a New York, gli altri tre a Los Angeles, e si sono dispersi in una miriade di progetti individuali. Inoltre Il batterista Bear è diventato padre, Droste ha divorziato, le cose della vita. Nel 2015, semi maturi, hanno pensato ad nuovo album ed è nato Painted Ruins, non più creatura di Droste come i primi album ma frutto di un lavoro collettivo iniziato a distanza, tramite demos e abbozzi condivisi in rete. Tante idee, ma anche tante mezze idee, poi assemblate negli studios Hollywoodiani di Taylor e Rossen, senza buttare via nulla, per creare un album dalla produzione ineccepibile, curato maniacalmente nei dettagli.
Dopo i 5 ascolti consigliati non resta peró molto, pochi segni di quella svolta elettronica preannunciata da Droste 2 anni fa: giusto un po' electro i due singoli, Three Rings coi suoi synth e Mourning Sound, brano alla New Order, meno valido della sua creativa clip.
Painted Ruins è un'eccellente ma scontato mix and match di stili: freak-indie-folk, psych, prog e jazz, come in Aquarian, uno dei brani migliori dell'album, e persino lounge, come in Systole, filler song poco convinta. Chamber pop di raffinata e gelida fattura, una patinata fiction TV in 16/9, old school, appesantito da una ritmica ossessiva e monotona e da un uniformante romanticismo che cade spesso nella melassa. Vedi la pur bella traccia iniziale, Wasted Acres, che fa sua l'eredità dei Moody Blues, e la noiosa Neighbors che conduce il discorso alle estreme conseguenze.
Il top dell'inutilità è raggiunto dalla svogliata Glass Hillside e da Cut-Out coi suoi rimandi ai meno validi Steely Dan. Da segnalare anche le geniali stratificazioni sonore della raffinata Four Cypresses e l'acidità di Losing All Sense. I testi sono criptici, pessimistici e malinconici e sanno di incompiuto ed indeterminato, immersi in uno spazio tempo non identificato, proprio come l'album, che potremmo definire ‘fuori tempo massimo’.
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