Plankton Wat DRIFTER’S TEMPLE
[Uscita: 9/09/2013]
La Thrill Jockey, label di stanza a Chicago è ormai diventata un punto di riferimento nella sfera delle etichette indipendenti. Con un catalogo ricco di artisti come Arbouretum, Califone, Fiery Furnaces, Giant Sand ed il duo delle meraviglie, Wooden Shjips e White Hills è ormai una sicurezza in ambito underground. Stavolta dal suo ricco calderone estraiamo i Plankton Wat che altro non è che il progetto solistico del prolifico strumentista Dewey Mahood. Un tipo che, tanto per dire, ha fatto parte dei validi Eternal Tapestry di cui era il funambolico chitarrista. Questo "Drifter's temple" è il quarto disco dal 2009 per lui a seguire i due dell'anno passato, l'ottimo "Spirits" ed il seguente "Mirror lake" che in realtà era un mini lp. Oltre a questi la solita sfilata di CD-R casalinghi che vanno tanto di moda di recente, hanno in pratica sostituito i vecchi demotape su cassetta. Quest'ultimo lavoro con la sua copertina multicolorata con strani simboli ed animali assortiti lascia intravedere e depone aspettative per un disco improntato sulla psichedelia. Rispetto ai precedenti lavori poco pare essere cambiato per il chitarrista di Portland. Se nel precedente "Mirror lake" avevamo sprazzi di chitarra acustica Takoma style qui è quasi sempre la sei corde elettrica a farla da padrona una volta di più. Dewey suona pure basso, organo e synth tanto per non farsi mancare nulla.
Sì, perché non lo avevamo ancora sottolineato, i lavori dei Plankton Wat sono totalmente strumentali, con tutti i rischi ed i limiti del caso. Lo stile chitarristico di Dewey Mahood si rifà inevitabilmente ai grandi maestri della psych usa dei gloriosi sixties come Jerry Garcia, ma pure a superbi artigiani quali Eric Johnson (Mariani). I dieci pezzi di "Drifter's temple" scorrono in rapida sequenza quasi a formare una lunga, interminabile suite che in realtà appare un esercizio calligrafico di pura tecnica strumentale. Arrivati al quarto, quinto episodio la noia regna sovrana e viene da chiedersi chi sarà il primo ascoltatore che arriverà all'ultimo solco. Ci interroghiamo spesso come mai molti gruppi che hanno nel loro organico pessime voci non lascino allora cantare gli strumenti, beh dobbiamo dire allora che i Plankton Wat ci hanno preso alla lettera. Dopo che in cinque anni ci hanno già consegnato diverse ore di materiale di questa fattezza e con questo stile non si capisce questa necessità di Mahood di sfoggiare ancora e dimostrare al mondo dell'underground i suoi prodigi chitarristici. In certi passaggi e nell'accordatura usata pare di riascoltare certe mirabilie del magico Maurice Deebank del primo disco dei Felt, vedi la favolosa Evergreen dazed da "Crumbling the antiseptic beauty" (1981). Musica per la mente, musica per il corpo, visioni psichedeliche, tutto bello in apparenza ma tutto questo non riesce proprio a giustificare un disco così. Bravo bravissimo Dewey ma passiamo a qualcos'altro, please.
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