The Black Veils BLOSSOM
"Blossom" dovrebbe rappresentare l’esordio del trio di giovanissimi Gregor Samsa (voce), Mario D’Anielli (chitarra, synth, drum machine) e Filippo Scalzo (basso). In realtà per certi versi è una metamorfosi rivisitata e corretta di un precedente progetto dello stesso Samsa del 2013 a nome Forest of Veils, di cui rivendica in qualche modo l’estetica concettuale di fondo e ne riprende un paio di brani.
L’ostinazione strutturale caparbiamente portata avanti è quella di muoversi in un cliché manifestamente derivativo. Rispetto al cromatismo ambientale del precedente (nero), con influenze più vicine al neo folk marziale e alla dark wave più cupa, qui si imprime una virata che ammicca alla malinconia (blue) e alle atmosfere sognanti e rarefatte del filone new romantic e shoegaze, conferendo una maggiore apertura e brillantezza all’insieme. Tutto l’esperimento, pur non offrendo nessuna eclatante novità e attingendo da un repertorio fin troppo spremuto e abusato, parte da un approccio davvero ispirato e devoto. Non si tratta di un’operazione scaltra di emulazione ma è un affaccio curioso ed entusiasta che trasmette l’impatto e lo stupore di una scoperta non imposta passivamente da circostanze generazionali ma voluta, scelta, consapevole. E arriva tutta la freschezza della passione, l’impellenza e la voracità comunicativa.
L’omonimo brano di apertura gioca la sua carica emotiva sull’intreccio classico di corde e batteria. Degradazioni atmosferiche e progressioni ritmiche tirate. Molto calibrata nella sua formula minimale e scarna Dance of the Mice con un secco incedere di basso e un suggestivo propagarsi di acquatili riverberi. The Fall ritrova tutta la raffinatezza di certi arrangiamenti cari ai Chameleons, così come Chrysalis. Un pulsare elettronico per King of Worms forse eccessivamente enfatizzata e caricata di effetti sintetici. The Tongue si concede ariose aperture psichedeliche e andamento sincopato che nulla toglie all’orecchiabilità. Eredità synthpop ineccepibile e senza sbavature Claws on the Corn e Army of Illusion. Nel suo complesso il lavoro è ben armonizzato, si rende fluido e godibile anche se perde davvero pathos e spontaneità nell’indulgere in cesellature e ricercatezze di arrangiamenti e in costruzioni melodiche a tratti artificiose. Stempera molto bene la cavalcata abrasiva e barcollante alla Fall, Out of the Well e la ballad cadenzata A Prayer, con una maggiore carica psicotica. I requisiti per rendere più marcata e incisiva la propria identità ci sono tutti, magari per convogliare l’attitudine sofisticata e puntigliosa in una forma creativa che sappia anche osare divagazioni sperimentali o astrattismi artistici più personali e, altrettanto elegantemente, meno convenzionali.
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