The Pretty Things 26 aprile 2012, Torino, United Club
Ricordo perfettamente quando scoprii i Pretty Things. Fu un giorno del 1986, durante una delle classiche “tagliate” da scuola. Una di quelle meravigliose mattinate free in cui mi nascondevo in biblioteca o al bar, divorando tra un cappuccino e l’altro le riviste musicali fresche di uscita. Tra queste, un Rockerilla con in copertina la foto di Giovanni Lindo Ferretti, allora ancora soviet-punk e non filo-papista, e all’interno un articolo retrospettivo su una vecchia band inglese di cui avevo fin lì solo orecchiato vagamente il nome. Non rammento il nome dell’articolista (sorry), ma ventisei anni dopo potrei ancora citare quel pezzo a memoria. ‘I Pretty Things e il veleno della rabbia anti-sociale’, o qualcosa del genere. Si raccontava di una ciurma di disadattati buttati fuori dalla scuola d’arte, di selvaggi che avevano messo a ferro e fuoco la Nuova Zelanda durante un tour, di un batterista pazzo ma così pazzo che Keith Moon al confronto era un impiegato del catasto. Roba già super-eccitante, ma a mandarmi in visibilio più che le parole furono le foto, dei bianco & nero sgranati (ricordate quando le riviste musicali erano esclusivamente in b/n?) che accesero la mia fantasia di diciassettenne affamato di tutto ciò che profumasse anche solo lontanamente di Sixties e mitologia rock’n’roll.
Quel look assolutamente perfetto, quei capelli già lunghissimi per il 1965, quelle giacche stazzonate da studente in bolletta, quegli stivaletti a punta, quei vicoli di mattoni grigi che uno si immagina siano esistiti solo in Inghilterra in quegli anni lì. Decisi quella mattina stessa che i Pretty Things sarebbero diventati uno dei miei gruppi preferiti, prima ancora di ascoltare una sola nota della loro musica. Lo sono ancora oggi. E tuttavia mai avrei immaginato, in quel momento, che nel successivo quarto di secolo li avrei visti dal vivo addirittura quattro volte. Due in trasferta: al Ronnie Scott’s di Londra nel 1998, per la celebrazione del trentennale di “SF Sorrow”, il loro capolavoro psych, e poi al Festival Beat di Salsomaggiore tre anni fa. Il battesimo si rivelò invece l’occasione meno entusiasmante: Studio Due di Torino, fine anni Ottanta, repertorio integralmente r’n’b preso dal primo album e loro che mi sembrarono vecchissimi. Ma come direbbe un loro contemporaneo un pochino più famoso, i Pretties sono molto più giovani oggi di allora. Archiviata la fase della mezza età in cui erano considerati dei sopravvissuti, sono entrati (da un bel pezzo) in quella della – ahem- maturità nella quale sono giustamente celebrati come monumenti.
Ed eccoli qui, i monumenti, arrivare davanti a un club di semi-periferia su un furgone bianco scassatissimo che ti tocchi solo a guardarlo. Li vedi scendere dal Volkswagen scatarrante, e pensi che questi cinquant’anni fa erano compagni di scuola degli Stones. Anzi, uno ci ha pure suonato, negli Stones. La vita può essere ingiusta, a volte. Ma a giudicare dalle facce da vecchi tagliagole di Phil May e Dick Taylor, a loro va benissimo così. Il primo è un piccoletto con lo sguardo da faina, sorta di incrocio tra Boninsegna a fine carriera e Vasco Rossi quando manda i "clippini” su facebook, il secondo è il (bis)nonno che tutti vorrebbero avere. A completare il quintetto, un chitarrista e armonicista cinquantenne (Frankie Holland, in formazione ormai da vent’anni) e una baby-sezione ritmica che sembra appena uscita dai Libertines. Tre generazioni in un solo gruppo, in pratica. L’impasto funziona: l’impalcatura sonora non scricchiola e sembra meno vetusta di quello che potrebbe essere grazie alla potenza dei due ragazzini, Holland fa da l’allenatore in campo e quei due lì, May e Taylor, restano gli eterni punk di sempre.
Dick svisa psichedelico o improvvisa bluesy, sempre con tecnica rozza eppure efficacissima, Phil dimostra che decenni di stravizi (tra i quali il tabagismo è probabilmente il più leggero) non hanno intaccato più di tanto le corde vocali. Attaccano con Roadrunner, e già alla fine del pezzo il bassista rompe una corda. Pausa blues d’emergenza, e poi si riparte con una compatta Don’t Bring Me Down. Suonano a volume altissimo, per fortuna, e chissà cosa ne pensa il buon Dario Salvatori, presente nel pubblico di true believers dello United. Dopo la semi-nuova The Beat Goes On, l’atmosfera inizia a farsi acida con la sempre magnifica Alexander, e a quel punto siamo già in zona-SF Sorrow. In fin dei conti, Torino non è poi così distante dalla città immaginaria nella quale nasce il protagonista della prima rock-opera della storia, non fosse altro che per quella “factory of misery” ormai in disuso intorno alla quale è cresciuta.
Quando partono gli accordi della canzone omonima è una staffilata emotiva, ma il meglio arriva con le versioni solidissime di She Says Good Morning, Baron Saturday (cantata da Taylor, con un’indiavolata parte percussiva centrale) e della stupenda I See You. Salutato Sebastian F con la desolata Loneliest Person In the World, i Pretties tornano a indossare i panni dei reprobi del blues (Come On My Kitchen di Robert Johnson), delle pecore nere del beat che strapazzano i maestri come l’amato Bo Diddley (You Can’t Judge a Book By Its Cover, una Mona a muso duro incrociata con Wish You Would), degli edonisti persi nelle notti swinganti di una Londra che non tornerà mai più (Come See Me e Midnight To Six Man, un po’ penalizzate dall’assenza del piano ma sempre irresistibili). Il tempo di farsi una paglia nei camerini, e poi i nostri stagionati killer tornano sul palco a finire il lavoro, con LSD e l’immancabile Rosalyn, esordio su singolo uscito un milione di anni fa. Strepitosi. Dopo il concerto se ne stanno un’ora a firmare poster e dischi, prima di risalire sul Volkswagen poco più giovane di loro e sgasare via nella notte. Eroici.
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