Giant Giant Sand TUCSON
[Uscita: 12/06/2012]
Come Ulisse dopo vent’anni di peregrinazioni musicali, Scandinavia, Balcani, Andalusia, Nord Africa, America Latina, che lo hanno portato a confrontarsi con le più disparate esperienze musicali, dal gospel al flamenco, dai ritmi latini a quelli balcanici, Howe Gelb è tornato a casa, nella sua Tucson in pieno deserto dell’Arizona. Lo fa con una band di ben 12 elementi, ai musicisti danesi che ormai lo affiancano da 10 anni si uniscono musicisti di Tucson e una violinista, Iris Jacobsen, danese ma, guarda un po’, nata a Tucson. Il cambio di nome con la duplicazione dell’iniziale Giant e il titolo dell’album dedicato alla nativa Tucson, sottolineano da un lato l’ampliamento della band e dall’altro il desiderio di tornare alle radici, a un disco fondamentalmente country, imbevuto della malinconia, della solitudine, degli spazi profondi, dell’ansia di libertà, del mito del viaggio come ricerca interiore e indipendenza personale che sono ingredienti essenziali del mito della frontiera.
E’ lo stesso Gelb che definisce “Tucson” come una country rock opera, i diciannove brani dell’album ci narrano il vagare di un uomo di mezza età, c’è evidentemente un sottile autobiografismo, che, abbandonata la sua Tucson, percorre il sud fino alla frontiera messicana imbattendosi in amori fuggevoli e inattesi e in tutti quegli scenari che popolano il nostro immaginario della frontiera: sperdute stazioni di servizio, individualismo anarchico, deserti attraversati da rinsecchiti cespugli rotolanti, tramonti infuocati, interminabili nastri d’asfalto, polvere, sudore, amore e vento. Ma naturalmente ciò che più conta è la musica, e certo Gelb non delude i suoi estimatori, questo “Tucson” possiamo tranquillamente annoverarlo tra le opere migliori di una discografia che non conosce passi falsi, a proposito la stessa Fire sta ristampando le prime, introvabili e impedibili, prove del nostro. Alternative country, ma ravvivato da innesti latini, dai fiati mariachi e dalla cumbia peruviana, ultimo amore di Gelb, che discretamente dà un tocco esotico e danzereccio, in Caranito.
Ma su tutto è la voce calda, roca che profuma di sabbia e sterpi di Gelb che finisce per catturare la nostra anima e cullarla, dolce e suadente, nei lontani paesaggi del West assolato e perduto, mentre la big band arricchisce arrangiamenti in cui l’apporto dei vari strumenti: fiati, chitarre, pedal steel, fisarmoniche, violini, percussioni scorre fluido e mai sovrabbondante. In un album in cui per una volta la lunga tracklist non prevede inutili riempitivi ognuno potrà operare le proprie scelte seguendo anche l’umore del momento, la notturna Plan Of Existence o Wind Blown Waltz per i momenti più intimi, con la voce di Gelb che suona come un Tom Waits rurale, la lunga bellissima ballata Forever And A Day con un inizio degno dei migliori Calexico e un finale orientato verso il Messico per farci trasportare lungo il confine meridionale, Lost Love per farci addolcire il cuore dalle voci femminili che accompagnano il rude Gelb.
Commenti →