Ray Davies OUR COUNTRY: AMERICANA ACT II
[Uscita: 29/06/2018]
Inghilterra #consigliatodadistorsioni
Gli inglesi che guardavano il mare portargli la musica. Gli americani che arrivavano carichi di tutto, anche di musica. L'abbraccio era spontaneo, forte, interessato. Quelli che arrivavano da lontano pensavano alla vendita o al baratto, e chi era a terra solo a salutare con la mano e a scorgere il tipo che aveva la cassa piena di long playing e 45 giri. Le due culture musicali si sono così fuse. C'era chi imparava dal jazz, chi si beveva tutto il rock'n'roll possibile. Storie di porti, di marinai, di canzoni si mescolavano prevalentemente a Liverpool, dove i Beatles scartavano i singoli dei divi della Motown, e a Newcastle, dove un giovanotto tarchiato e bianco di pelle ma con la voce di un nero - Eric Burdon, futuro leader degli Animals - sognava in lingua blues e progettava la sua band. In quegli stessi anni, più o meno, c'era un tipetto smilzo che non aspettava le navi perché dalle sue parti, a Fortis Green, un sobborgo di Londra, al massimo ti attraversava la strada un bus a due piani pieno di turisti curiosi di vedere le belle case di uno dei "cinque più bei quartieri di Londra". Ray Davies i dischi se li andava a comprare nei negozi, anche se i soldi in casa non erano tantissimi visto che mamma Ann e papà Frederick dovevano pensare a otto figli. E una volta che li aveva comprati, seguiva la sorella nelle dance hall dove lei era già una star per capire cosa rendeva meglio sulle piste da ballo. Insieme al fratello Dave e a un altro ragazzo di zona, Pete Quaife, era destinato a fondare i Kinks, quelli di You really got me, Sunny Afternoon e Lola, per dirne solo alcuni di successi.
L'America, come già spiegato nella recensione del precedente “Americana”, uscito lo scorso anno, era al centro dei pensieri di Dave, sia quando affrontava con i ragazzi il rock'n'roll imparato dai 45 giri, sia quando era lo skiffle, un misto di country, blues, folk e jazz a tenere banco nel soggiorno di casa. Qui siamo al secondo capitolo dell'omaggio di Davies, oggi settantaquattrenne, alla musica - tanta musica - con cui è cresciuto. Come il predecessore, il nuovo “Our Country: Americana Act II” riflette attraverso canzoni e piccole porzioni di lingua parlata sul significato di vivere e lavorare negli Stati Uniti e su quanto fosse attratto Davies da piccolo da quelle sonorità e da quella cultura che gli arrivavano da lontano, grazie ai singoli in vinile, alla radio e alle storie scritte nei libri per ragazzi. Sempre con i Jayhawks accanto, più il chitarrista Bill Shanley, un coro e una sezione fiati, oltre ad alcuni strumentisti aggiunti, il compositore britannico occhieggia molto al sound caldo e pastoso di New Orleans, curiosamente la città americana in cui lui nel 2004 si beccò dei colpi di pistola nelle gambe durante un tentativo di rapina.
Di queste 19 canzoni - tre delle quali sono rifacimenti di repertorio Davies e le altre delle composizioni nuove - una aggredisce subito l'argomento: è The Big Guy, una riflessione sul risveglio in ospedale pieno di ferite da arma da fuoco, dove "i grandi ragazzi“ sono le guardie del corpo, un tipo strambo chiamato Tony e un certo Bobby. Il disco, che cita abbondantemente l'autobiografia di Davies pubblicata nel 2013, offre un rhythm'n'blues precedente all'epoca del rock'n'roll (Back in the day), una virata sul folk (Bringing up baby, con spruzzate di quel mandolino che tanto piace ai britannici, basti ricordare certi slanci da solista di Rod Stewart) e, come detto, porte aperte sul fascino e sul mistero di New Orleans (A street called hope). Rilegge bene la Oklahoma U.S.A. che i Kinks misero nel 1971 su “Muswell Hillbillies”, titolo molto esplicativo. Aria del Golfo del Messico anche in Louisiana sky e si parla di voodoo e "morti che camminano" in March of the Zombies. Un concept album brillante e interessante, non certo per tutti i palati e non necessariamente riferibile al mondo Kinks. Consigliatissimo a chi già possiede il disco di un anno fa. Consigliato a chi ancora prova i brividi quando ascolta Sunny Afternoon. Agli altri servirà documentarsi ancora un po', oltre questa recensione.
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