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17 Ottobre 2014

Il giovane favoloso Mario Martone

2014 - Italia - Cast: Elio Germano, Michele Riondino, Anna Mouglalis, Massimo Popolizio, Isabella Ragonese - Durata: 135 min. - Uscita: 16 ottobre 2014

 

Il giovane favoloso di Mario Martone ripercorre tre momenti fondamentali della vicenda biografica e intellettuale di Giacomo Leopardi: l’infanzia e l’adolescenza a Recanati, il borgo natio-prigione in cui il giovane poeta si forma in compagnia d’un idea di fuga che cresce al pari del proprio straordinario intelletto, anni dominati da un padre ingombrante, da una madre anaffettiva e bigotta, e riscaldati dal solo amore dei fratelli; gli anni fiorentini, in cui Leopardi s’affaccia al mondo, entra in contatto con gli intellettuali di grido dell’Italia pre-unitaria (che non amerà e che non lo ameranno) e dove conoscerà l’amore, pensiero dominante-illusione suprema del viver umano, destinato, come tutto, a cadere presto; e infine il periodo napoletano, anni in cui la malattia s’acuirà fino a portarlo alla morte, ma anche il periodo in cui il pensiero del poeta raggiunge il suo culmine.

 

ll film di Martone rivede il concetto di biopic canonico (con qualche momento forse troppo didascalico) e si concede qualche licenza poetica, che conferisce alla vicenda un andamento quasi ellittico, che non fa che rinvigorire il film. In alcuni casi queste licenze fanno onore all’aggettivo da cui sono accompagnate, portando la pellicola a momenti d’alta immaginazione: la Silvia "ridestata", per un attimo, che sorride dalla bara al poeta che la guarda crea uno strano cortocircuito col film di Manoel de Oliveira Lo strano caso diIl-giovane-favoloso-1 Angelica, film “leopardiano” per molti aspetti; oppure la breve sequenza onirica che illustra il Dialogo della Natura e di un islandese. Il momento “poetico” più alto però non poteva non essere quello dedicato a La ginestra, che esce finalmente dalla polvere scolastica e riacquista nel film il suo titanismo, quella riflessione cosmica, smisurata e immensa (con tanto di "sterminator Vesevo" in eruzione), in un momento di poesia del paesaggio e della natura che non può non far pensare ad un altro grande momento "titanico" del cinema contemporaneo, quel finale di Faust di Sokurov in cui anche a Goethe viene restituita, grazie al cinema, la grandeur che gli spetta. Anche nei momenti più "didattici", però, il film trova il suo equilibrio, che raramente si trasforma in didascalia (anche se la sequenza dedicata a L’infinito è davvero troppo ridondante: le immagini avevano già parlato, le parole in questo caso son davvero di troppo).

 

La vita attraverso le lettere (in particolare quelle a Pietro Giordani) trova una propria armonia formale. Le parole e gli scritti riescono, insomma, a farsi immagine senza sostituirsi al linguaggio cinematografico, senza rimanere pura e sterile voce fuori campo o monologo teatrale. La scelta delle location, inoltre, aggiunge forza al film. Girare a casa Leopardi non fa che restituire, più che il realismo, l’inquietudine palpabile tra le mura del palazzo del conte Monaldo, tra gli scaffali della biblioteca (quella dello “studio matto e disperatissimo”) in cui i libri si trasformano in sbarre d’una prigione esistenziale. La regia nervosa (volentieri Martone sceglie la camera a mano) sottolinea ancor di più che la ricostruzione più che mimetica è psicologica, nonostante sia girata in loco – ma mai (e Martone lo ha ben capito) come nel caso di Leopardi i luoghi diventano simbolo se non metafora. Martone, insomma, riflette ancora sull’Ottocento (dopo Noi credevamo), ritenendolo – giustamente – il secolo fondativo della nostra contemporaneità. 

 

E se con il film precedente metteva in luce i nodi ancora irrisolti (e forse irrisolvibili) del nostro Risorgimento, e analizzava i problemi e le contraddizioni dei propugnatori delle magnifiche sorti e progressive, con questa pellicola sposta l’attenzione su chi, per primo, castigò (inascoltato) col sorriso beffardo d’un filosofo antico i falsi ottimismi liberali, cattolici o, più semplicemente, poetici dell’Ottocento italiano. Qui ancora Il giovane favoloso è pensieroelio che si fa immagine, in maniera naturale, nel descrivere i rapporti con "gli amici di Toscana": la scena dell’incontro con gli intellettuali dell’Antologia di Viesseux è fondamentale, e il commento di Tommaseo rappresentativo d’un intera generazione di intellettuali italiani. Martone con questo film s’avvicina al gran solitario della letteratura italiana, non compreso dai contemporanei, e ancora oggi troppo imbrigliato un una lettura scolastica che ne ha ridotto il profondissimo pensiero e la lezione illuminante all’idiota regoletta del pessimismo storico e del pessimismo cosmico, o alla favola della tristezza di fondo del povero deforme arrabbiato con la natura a causa del suo stato (Leopardi, e con lui Manzoni, sono due giganti devastati da una lettura troppo scolastica).

 

E proprio perché si intuisce la volontà del regista di de-scolarizzare Leopardi, di ri-pensarlo come autore fondamentale del vivere moderno, che gli si può perdonare qualche eccesso di cui francamente fatichiamo a trovare altro senso che questo, certo nobile – e giusto – ma che forse strappa qualche sorriso di troppo (mandare Leopardi a trans è atto fannyrivoluzionario e ridicolo allo stesso tempo). Il regista è stato anche molto bravo a mettere insieme un cast di alto livello, dimostrando che anche in Italia si può fare grande cinema con grandi attori, e che tra il birignao autocompiaciuto di alcuni mattatori principi del palcoscenico e il casting fatto al cinodromo di molti film nostrani c’è una felice e giusta terza via, in cui si riesce a mettere gli attori al servizio del film e non viceversa. Elio Germano riesce a non gigioneggiare (quasi mai) con un ruolo che era oggettivamente ad altissimo rischio macchietta o di iper-teatralità. Il suo è un Leopardi credibile sia dal punto di vista mimetico che, soprattutto, ideale. 

 

I comprimari reggono una partita altrettanto difficile: Popolizio è un Monaldo di un certo spessore e rigore, figura ingombrante dal rapporto non risolto col figlio (che scriveva nei Pensieri: "La potestà paterna [...] porta seco una specie di schiavitù de’ figluoli; che per essere domestica è più stringente e più sensibile della civile"). Michele Riondino è unfannt_2 Ranieri guascone e affettuoso (che lascia trasparire bene l’ambiguità di fondo del rapporto col poeta); Anna Mouglalis riporta sulla terra una Fanny Targioni Tozzetti che era una figura angelica solo agli occhi di Leopardi (prima della caduta dell’estrema illusione d’amore). Ed è proprio nei momenti in cui ci sono il poeta e la donna amata che la regia riesce a portare al meglio la poesia sullo schermo trasformandola in immagine senza caricarla d’artificiose forzature. E sembra di sentire i versi del poeta quando Fanny lascia i libri per abbracciare i suoi figli ("Quando tu, dotta allettatrice, fervidi sonanti baci scoccavi nelle curve labbra de’ tuoi bambini"), davanti ad un Leopardi, ancora per poco, adorante ("Apparve novo ciel, nova terra, e quasi raggio divino al pensier mio").

 

Trasformare gli endecasillabi sciolti leopardiani in sceneggiatura cinematografica non è cosa facile, e Martone c’è riuscito con la sua regia a tratti misurata e composta (che sfiora il tableau vivant), in altri momenti nervosa ed umorale. Il cinema del regista partenopeo non smette mai di essere rigoroso, stilisticamente consapevole. L’inquadratura parla il giovane favolososempre da sé, il dettaglio non è mai lasciato al caso (fino alla resa delle varianti d’autore negli scartafacci del poeta), la luce utilizzata con sapienza è naturale e metafisica al contempo. Nonostante, in sostanza, non si esca mai dal biopic tradizionale (genere in cui spesso il cinema italiano dà il peggio di sé) il film riesce a ricostruire una parte significativa del poderoso ingegno del più lucido, appassionato, vivo, dei pensatori dell’Europa moderna. E che nessuno si azzardi a parlare di pessimismo, questa parola non appartiene a Leopardi.

Luca Verrelli

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