Le Singe Blanc AOUTAT
Surreali, irriverenti, satirici. Costantemente ondivaghi tra l’impeto trash cacofonico e l’incubo lisergico più distorto e disturbato. Le Singe Blanc sono un trio proveniente da Metz, l’ennesimo a fregiarsi dell’insolita unione di due bassi a supporto della batteria. Giocano con le voci, imbastiscono ritmiche non sense, frullati psicotici e si muovono in perfetto equilibrio tra hardcore, magma psichedelico, tribalismi nevrotici, un’accozzaglia non meglio definita di funk punk tra il freakettone e la trivialità kitsch. Con questo “Aoûtat” Le Singe Blanc riprendono le attitudini di band anomale come Half Japanese e Holy Modal Rounders portando alla massima tensione il climax parodistico e la provocazione vaudeville. Sembrano il più delle volte sconclusionati nelle loro scorribande distorte, nelle incursioni aritmiche e nei ruvidi contrappunti, tuttavia questo approccio amatoriale e primitivista sembra più essere un’esercitazione ad effetto che non libera ed ispirata follia. Le loro devastazioni cacofoniche sono in realtà molto orecchiabili per essere associabili alla casualità goliardica. Lo sfoggio di infantilismi e rumorismi ad effetto finisce per sottrarre giocosità a scapito di una scipitezza pretestuosa e fine a se stessa. Tra i brani di maggiore euforia creativa Gru e Ema Stuper, che giocano con le gutturalità e i falsetti striduli intersecati a groove ossessivi, super veloci e incalzanti.
Mic Mac segue una partitura quasi math con questi stacchetti vocali perfettamente incanalati e scanditi. Il funk cannibalesco e invasato di Monorone è decisamente esilarante e coinvolgente. Molto più rifinite, rispetto ai tentativi di analfabetismo che tentano di trasmettere, Moignon e Cheuby, sono melodie perfettamente arrangiate in modalità lo-fi, sporcate nei punti giusti da inserzioni ad effetto di vocalizzi distorti e dissonanze varie (il cello nel secondo pezzo). Druine ci riporta all’impro fusion dei Jealousy Party con cacofonie in accelerazione che lambiscono la banalità. Dell’insieme francamente sfuggono anche i reali intenti. Viene da chiedersi se si tratta di provocazione, di arringa parodistica rivolta al sistema dell’omologazione e dell’alienazione post-industriale, di esasperata voglia di non prendersi sul serio che a sua volta si trasforma in scenografia abulica e in pietosa messa in scena della ripetitività. Il dubbio nasce spontaneo e il dipanarsi dei dieci brani non suggerisce soluzioni interpretative. Trapela unicamente un imbarazzante compromesso tra la voglia di risultare anacronistici ed irriverenti e la goffa rincorsa ad un’ascoltabilità camuffata con una serie di trucchi repellenti-deterrenti. Ed è forse solo questo l’elemento più drammaticamente spiazzante se consideriamo che, dai Teenage Jesus in poi, pochi sono riusciti veramente a raccontare qualcosa di bislacco senza cadere nella trappola del sensazionalismo più ambizioso e sintetico.
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