Syncage UNLIKE HERE
“Unlike Here” dei Syncage non è un album innovativo, nonostante sia questa la prima impressione che ne riceviamo. Eppure, è un grande album: se da un lato l'ascolto ripetuto ne rivela i vari riferimenti abbassando un pò il voto per l'originalità, dall'altro sancisce la coerenza e la compattezza musicale del promettente gruppo veneto, che dopo il singolo Hellound e l'EP Italiota, entrambi del 2014, perviene al suo vero debutto discografico. Le influenze sono visibili, in filigrana, attraverso le dieci tracce. Gli studi classici compiuti dai quattro componenti – Matteo Niccolin (voce, chitarra), suo fratello Riccardo (batteria, percussioni, cori), Daniele Tarabini (basso, flauto, cori) e Matteo Graziani (tastiere, violino, cori) – approdano a un prog contemporaneo venato tanto di metal quanto di sfumature acustiche (Stones Can't Handle Gravity, Unlike Here), erede di certo rock anni '70: se alcune linee vocali (School) fanno pensare ai Mothers of Invention, molto più corposi appaiono i debiti verso Gentle Giant e King Crimson, rievocati anche nelle sonorità, complici Mike 3rd e Ronan Chris Murphy che ne hanno curato rispettivamente la produzione in studio (tutta in analogico, presso il Prosdocimi Recording Studio) e il mastering, memori delle loro collaborazioni con Tony Levin, Robert Fripp e la sua band. Non mancano omaggi al prog nostrano, leggasi Area.
Sono influenze elaborate con maturità e il prodotto finale è tanto vario quanto consapevole. Non generi, giustapposti come in gran parte delle produzioni simili, ma piuttosto linguaggi, profondamente assimilati dalla band e in particolare da Matteo Niccolini, autore di musiche e testi. Le liriche compongono un'unica storia, suddivisa in dieci "capitoli", secondo i dettami del concept album: la fuga da una città in cui le classi sociali sono modellate su categorie teatrali - e capeggiate da un dispotico Direttore - e dalle convenzioni sociali che essa comporta. Un topos non proprio originale, che in alcuni momenti ricorda recenti esempi di cinema "distopico" (l'incontro con lo stile di vita alternativo dei fuorilegge nelle campagne ricorda molto alcune scene di “The Lobster”); lo stesso cliché della maschera non è certo la trovata più fantasiosa possibile. Ma in definitiva, nonostante queste ultime obiezioni, è un lavoro davvero molto buono, fra i migliori aggiornamenti pervenuti in questi ultimi anni nella "bibliografia" del prog europeo.
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