Club Voltaire THE ESCAPE THEORY
Ci avete fatto mai caso? Spesso gli Oasis, pur rifacendosi espressamente ai Beatles, finivano con il somigliare più a certe opere soliste di Lennon o di McCartney. E chi conosce un po’ della scena new-progressive britannica, ha notato che talvolta la parentela sembra più forte con i Genesis di “Duke” che con quelli di “Selling England by the Pound”? Stare alle spalle dei giganti, sempre per parafrasare un titolo degli Oasis, non è mai facile e spesso, più che cogliere la band di riferimento nella fase apicale della propria carriera, se ne finisce con il catturare il “contorno”. Questo è il pensiero che viene a bruciapelo entrando in contatto con Rising Start, traccia di apertura di quest’ottimo “The Escape Theory”, dei comaschi Club Voltaire. Nella fattispecie, con il primo brano, il modello che giunge alla mente è quello degli U2, ma limitatamente alla produzione di questa band nel nuovo millennio, non agli esordi degli anni ’80. Più brit-pop che new wave, quindi, e nelle tracce successive il richiamo alla “nouvelle vague” inglese è soprattutto legato a un uso presente del basso e a linee di batteria possenti, mentre di questa corrente stilistica manca in toto l’impronta dark, sostituita da una solarità più vicina a quella di gruppi come Blur, i già citati Oasis o persino i Coldplay meno claustrofobici. Queste le sensazioni che pervadono l’ascoltatore nelle prime quattro tracce. Ma di colpo, da Pieces of Beach, forse il momento più alto dell’intero CD, succede qualcosa che disorienta: è come se i quattro comaschi salissero a bordo di un sottomarino giallo e intraprendessero un Magical Mistery Tour che li porta prepotentemente indietro nel tempo. Qua e là tra i vari brani iniziano a fare capolino persino dei suoni di Mellotron, meraviglioso strumento vintage esecrato dai Cavalieri Elettrici degli anni ’80 e tornato a vivere nuova gloria dai ’90 in poi.
Davvero degna di nota anche la successiva Weller, il momento più cattivo di tutto l’album, che in certe sfumature sposta la lancetta dai Beatles ai Rolling Stones. Non sappiamo se il titolo sia un omaggio a Paul Weller, ma lo stile e la grinta della traccia farebbero pensare di sì. Ci sono davvero tanti motivi, alla fine, per apprezzare questo “The Escape Theory”: primo fra tutti il songwriting, perché in fondo il vero motivo per cui compriamo un CD è quello di ascoltare delle belle canzoni, e qui ce ne sono tante, vincenti, azzeccate, che catturano ed entrano nel cuore una dopo l’altra. In 38 minuti circa di musica non c’è un attimo di stanca, un inutile riempitivo. L’altra vera ciliegina sulla torta sta nell’uso delle voci e delle armonie vocali, davvero internazionale: il cantato di questo disco allontana ogni possibile accusa di italianità o, peggio, di provincialismo che spesso affligge e affossa tante produzioni nate nello Stivale. Momento di intima confessione: sul finale quasi gospel di Midnight Chance ci siamo ritrovati da soli come dei cretini, in ufficio, a fare hand-clap a tempo con i musicisti della band; suggerimento al produttore: sarebbe bastato invertire questa penultima traccia con la successiva, e pur bella, Words don’t cover, una ballad pianistica ancora tra Oasis e Coldplay, per avere un finalone con il botto. Alla fine, se questo disco concepito a Como, mixato a Berlino e masterizzato presso gli studi liguri Ithil di Imperia fosse in realtà nato a Manchester o a Liverpool, lo sentiremmo sparato in heavy rotation a livello mondiale. Ottimo esordio: i Club Voltaire sanno cantare, sanno suonare, sanno arrangiare con gusto e in modo vario ma soprattutto, cosa assai rara e preziosa al giorno d’oggi, sanno comporre. Per il futuro se oseranno un pizzico di più troveranno davvero una strada tutta loro.
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