Bread Pitt Tapes and Files
Ma qui diventa necessario essere seri e compunti. Diventa necessario dire signori avevo scherzato e me ne dolgo. Bread Pitt non è quell’insolente bontempone che strimpella cacofonie lo-fi per dare sfogo alla sua frustrazione o per giocare a fare il fighetto finto alternativo. Qui ci stiamo trovando di fronte ad un album di musica sperimentale e di concretismi assai più criptici e visionari di tutto ciò che mai Residents, Contortions o mr. Cage in persona abbiano mai potuto concepire. Nel senso che qui viene operato un perfetto connubio tra ‘musica aleatorica’ e ‘indeterminezza musicale’. In chiave scanzonata - seriosa si dà sfoggio ad un college di 16 variegatissimi brani un po’ tapes e un po’ files, che ripercorrono con grinta, spassosità, estro e scorrevolezza, mezzo secolo di contaminazioni tra avanguardia sporcata di punk rock, melodia inficiata da atonalità, teatralità fracassona e bambinesca e ricerca sottile di armonia astratta. Tapes 1 e Tapes 2 sono una vera e propria ouverture di paesaggi sonori che tentano la dissociazione dalla fonte sonora stessa: registrazioni, voci, rumorismi vari e contorsioni strumentali indistinte di campanelli metallurgici, percussioni, corde glissate e sax.
Il Tapes 3 sembra quasi un tunnel del silenzio perturbato o il trait d’union con i Tapes 4 e 5 che scivolano dalla fusion free form al galleggiamento apneico e sensoriale. Tapes 6 è una galoppata motorik che ricorda tanto i Can e i Neu! E in cui gli strumenti ritornano alla loro identità e al loro perfetto intreccio. L’arte naif scava una sua nicchia di primitivismo minimalista e abulico con il Tapes 8 che conclude la prima parte concettuale del lavoro. Una messa in atto ragionatissima di un soundpainting dadaista e istintivo da cui scaturisce armonia e illogicità, in cui convivono creatività, follia, estemporaneità. Il viaggio rocambolesco continua nelle due pieces di Umanizzazione, in cui il rumore diventa corale, il deragliamento orchestrale, mesmerico, prepotente. Sospensioni tra la delirante sperimentazione in sovratoni di Rhys Chatham e le atonalità bizzarre di Arto Lindsay. Si prosegue con La resa dell’Integralista e francamente si entra nella più pura perdizione e delizia. Svaniscono linee di orizzonte, piani di orientamento. Il caos puro e fluido della creazione fantasiosa. Pochi minuti in cui convivono campionamenti, riff distorti, crescendo nevrotici, ritmiche tribali.
La parte in cui il disco assume una sua specifica identità di completo sdoganamento da generi e mode è esattamente il momento in cui vi si trova la confluenza di intere decadi di contaminazioni, tra ascese, eclissi e abissali contraddizioni. Si macina il post rock, la no wave, il delirio noise. Su tutti il bellissimo viaggio lisergico di Stereo Steroids che ci catapulta al dirompente sfoggio di ritmi strumentali di Bastro e Tortoise e il finale a sorpresa che invece si riappropria con dignità di certe nostre origini ‘nobili’ di sperimentazione illuminata post punk venata di sarcasmo e dissacrazione. La religione è una panciera è l’apoteosi della non omologazione che concentra in sé il fermento avanguardistico del Movimento ’77 e della Traumfabrik bolognese di Gaznevada e The Stupid Set. Cosa dire? Se le contaminazioni che gli untori della Lepers & Co. vogliono spargere nella satura aura italica in questi tempi tristi e piatti sono queste siamo tutti felici di ammorbarci così.
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