Flying Disk CIRCLING FURTHER DOWN
Primo album per il giovane trio fossanese alle prese con una scrittura rude e una realizzazione particolarmente aggressiva. Che in questa musica del martello l’originalità non sia il tratto distintivo dominante lo si percepisce al primo ascolto; gli otto brani sembrano infatti rappresentare ognuno una maniera diversa con la quale la band sembra cimentarsi. Si va dal Math allo Hardcore senza alcuna soluzione di continuità e soprattutto senza alcuna gerarchia. L’unica cosa che sta veramente a cuore dei Flying Disk è attaccare in modo diretto l’ascoltatore quasi fosse la vera controparte del rumore organizzato di “Circling Further Down”. È divenuto rituale e insipido, quando si parla di decibel elevati, il sintagma muro-di-suono, una metafora talmente logora che ormai non suggerisce più nulla e non lascia nel lettore che una vaga sensazione di deja vu. Eppure Flying Disk prende sul serio l’espressione e prova realmente a spalmare il viso dell’ascoltatore sulla coltre sonora prodotta, ma in alcuni casi l’effetto è talmente superficiale che basterebbe girarsi di spalle per far crollare il muro. È ad esempio la sensazione che abbiamo provato durante l’ascolto di Recycled Plastic – mai titolo più adatto – un pastiche tanto potente quanto evanescente di funk e hardcore: una vera e propria macchina per il riciclaggio. Non stupisce che l’effetto sia piuttosto plasticoso. Abbiamo poi il capitolo sedicente post-grunge, al quale potremmo ascrivere in effetti tutto il disco, ma al quale appartengono sommamente No Dead In My Lawn e I don’t Feel Anything che sono dei veri e propri brani-scrigno degli anni ’90 sub specie rock con qualche venatura garage.
Tuttavia, come Three as Seven sta lì a testimoniare, la sezione ritmica appare solida e precisa e sentiamo spesso una tensione verso lidi più grind o addirittura death che una chitarra più riflessiva e trasognata non sembra voler frequentare; o meglio come in Scrape in the Bottom (qui compare il verso che dà il titolo al disco) la chitarra insiste su ossessioni e melodie malinconiche che vorrebbero rendere più rarefatta l’aria, creare qualche falla nel muro di suoni eretto furiosamente dalla band. Ma l’aria continua, al contrario, a farsi satura di tante, troppe, citazioni. Valga come esempio Disconnect nella quale un riff à la Led Zeppelin si alterna con un’attitudine tipicamente noise. Il risultato sarebbe anche godibile se poi non si arrivasse a strafare trasformando la citazione in sperimentazione a buon mercato tra scream discutibili e tentativi ritmici vecchi già nel 1964. Ad essere particolarmente affettata risulta la componente vocale: il timbro alla Cornell delle Langhe e la sua linea monocorde sono a tratti mirabilmente straniati dal resto come un'etichetta apposta su un contenitore vuoto. È forse questo il limite più grande di questa opera d’esordio che non convince fino in fondo, che non stride come vorrebbe e che è indice di una maturità ancora da acquisire per il trio di Cuneo dal quale, visto l’elevato tasso tecnico, ci aspettiamo molto di più in futuro.
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