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11 Marzo 2014

Transatlantic 2 Marzo 2014 , Milano, Alcatraz


translocandinaPer gli amanti del progressive rock un concerto dei Transatlantic è da non perdere assolutamente: non sono una vera e propria band, ma un progetto parallelo di quattro musicisti estremamente impegnati con le rispettive bands d’origine e provenienti dai due lati dell’oceano (da lì il nome della band); dagli USA troviamo l’ex-cantante e polistrumentista (tastiere/chitarra) degli Spock’s Beard, Neal Morse, da circa una quindicina d’anni impegnato in una sua prolifica carriera solista, e l’ex-batterista dei Dream Theater, Mike Portnoy, da poco congedatosi dalla sua formazione storica. Dall’Europa troviamo il chitarrista degli svedesi Flower Kings (e prima ancora nei Kaipa) Roine Stolt e il bassista dei Marillion, Pete Trewavas, dalla Gran Bretagna. Appuntamento da non perdere, dicevamo, perché i Transatlantic sono un progetto occasionale ed estemporaneo, con soli quattro album all’attivo dal 2000 a oggi, e ogni loro reunion potrebbe essere l’ultima. Per questo motivo, la sera del 2 marzo, l’Alcatraz di Milano era abbastanza pieno, compatibilmente con le esigue cifre da “ultra-nicchia” a cui il prog-rock si è da tempo abituato. Tutto inizia molto presto, alle 20:30 con eccellente puntualità, e senza gruppi spalla, perché i Transatlantic spingono alle estreme conseguenze la consueta dilatazione e articolazione dei brani tipica del prog e danno vita a veri e propri monumenti sinfonici, per cui hanno bisogno di tempo per riproporre dal vivo le loro gigantesche composizioni.

 

All’arrivo della band sul palco la prima cosa che impressiona è quella luce, nello sguardo e nel sorriso di Neal Morse: questo musicista ha lasciato gli Spock’s Beard contestualmente con una profonda conversione religiosa e con ogni gesto, con ogni espressione trasmette un forte senso di equilibrio e di pace, con sé stesso e col mondo, che fa correre un brivido sulla schiena dell’ascoltatore. Nei tour precedenti i Transatlantic dal vivo erano cinque, per poter riproporre con completezza i complicati arrangiamenti realizzati in studio, ed il ruolota2013 di “jolly” era affidato a un altro beniamino del pubblico prog più giovane, Daniel Gildenlow, degli svedesi Pain of Salvation. Quest’anno invece il baricentro della band si sposta dall’Europa all’America, e il ruolo di “quinto uomo” (chitarra, tastiere, percussioni, cori) è affidato a Ted Leonard, altro grande nome del prog-rock a stelle e strisce; Leonard era negli storici Enchant ma è recentemente subentrato a Nick D’Virgilio proprio negli Spock’s Beard “orfani” di Neal Morse. L’apertura del concerto è affidata, come tradizione transatlantica, al brano d’apertura del nuovo album, la suite di 25 minuti Into the blue, eseguita come da disco, perfetta, ineccepibile, senza una sbavatura. Al termine del brano a fare gli onori di casa da vero istrione è Mike Portnoy, che dichiara di essere felice di trovarsi di nuovo in Italia, per lui la vera patria del rock progressivo, e scherza un po’ sul fatto che, a quanto dice, esisterebbe una diatriba tra chi sostiene che il genere sia nato in Inghilterra e chi lo vuole invece tutto italiano. A tal proposito va detto che negli USA le bands italiane arrivarono in tournée a metà anni ’70 contemporaneamente a quelle inglesi, quando nel “Vecchio Mondo” il genere iniziava invece ad accusare una fase di crisi. Ma torniamo al concerto: l’album più amato dai fans dei Transatlantic è probabilmente il primo, del 2000, e da esso viene eseguito come secondo brano dello show My New World, altra suite lunga, complessa ed emozionante.

 

Transatlantic-225x225Con due brani che sommati tra loro superano già i 40 minuti, la prima parte del concerto si chiude con Shine, la ballad acustica scelta come singolo di lancio in anteprima del nuovo album “Kaleidoscope”, con tanto di video ufficiale, ammesso che oggi sia ancora corretto parlare di singolo di lancio per un brano che dura più o meno 7 minuti e per un genere come il prog che non gode certo di passaggi in heavy rotation nelle radio. Il pubblico tributa un grande affetto alla band, dimostrando di conoscere a menadito il nuovo album uscito da un mese e cantando a squarciagola tutta la canzone, e la band ricambia con altrettanto affetto, con un’interpretazione piena di sentimento da parte di tutti. A tal proposito è interessante notare come nei Transatlantic tutti i componenti abbiano pari dignità solista, non solo nel canto, nel quale si cimentano tutti a rotazione, ma anche nel ruolo dei propri strumenti, eccellentemente dosati in modo che nessuno passi mai in secondo piano. La seconda parte del concerto è invece interamente dedicata al terzo album della band, The Whirlwind: il disco è costituito da un’unica suite di 78 minuti e per una band con quattro dischi all’attivo (di cui uno freschissimo da promuovere) sarebbe eccessivo dedicare a questo solo brano tutto questo spazio, per cui ne viene eseguita una versione concentrata, che attinge dalla parte iniziale e da quella finale. La band, sorprendentemente affiatata nonostante un oceano li divida, ha raggiunto a questo punto del concerto il suo apice di carica e di intensità esecutiva e il finale di Whirlwind è probabilmente il momento più epico, maestoso e solenne dell’intero show, da lasciare a bocca aperta tutti i partecipanti.  La terza parte del concerto si apre con un vero e proprio “duello” di chitarre di Stolt all’elettrica e Morse all’acustica, un pezzo di bravura che valorizza al massimo le doti tecniche dei due virtuosi. Esso serve ad annunciare un’altra soft ballad molto amata dal pubblico, We all need some light, ancora dal primo album. 

 

Qui, a sorpresa, vengono concesse alcune strofe di canto solista a Ted Leonard e la pelle d’oca si fa alta sulle braccia del pubblico: Leonard non avrà l’intensità e il calore  di un D’Virgilio ma ha una di quelle voci americane calde, limpide, suadenti, che riescono a essere debitrici al prog inglese d’epoca quanto al soul e all’hard rock quanto all’AOR, e latransatlantic sua breve prestazione è eccellente. Ma dopo tanta atmosfera bisogna risvegliare il pubblico e, dal nuovo album, arriva attesissima la canzone più grintosa e spettacolare: Black as the sky, un vero inno, un concentrato di potenza e di precisione esecutiva nel quale la band porta ai massimi livelli quella sua capacità di divertire divertendosi e di suonare in modo ineccepibile pur senza mai prendersi troppo sul serio, che è poi la cifra stilistica di tutto questo fantastico concerto. Da qui in poi la scaletta del nuovo disco viene rispettata fino in fondo: dopo Black as the sky, un’altra ballad, Beyond the sun (in verità non tanto dissimile dalla spocksbeardiana The distance to the sun, uscita anch’essa dalla penna di Neal durante la sua militanza nella band), inizia con la voce di Morse a cappella e in quel momento è facile guardarsi intorno e vedere tanti lacrimoni negli occhi del pubblico. La band entra gradualmente, dapprima con Leonard che esegue le partiture d’archi alle tastiere sotto la voce di Morse, poi pian piano fino ad arrivare ai 32 minuti circa della conclusiva Kaleidoscope che dà il titolo al nuovo lavoro e che prende le mosse dal tema di Beyond the sun per evolversi in un perfetto gioco di incastri, raffinato e sinfonico, come forse oggi solo i Transatlantic sanno fare. Il concerto finisce, ma la band quasi non aspetta neanche di essere richiamata sul palco dal pubblico e rientra subito: hanno ancora tanto ottimo materiale da far sentire e si vede nei loro sguardi che muoiono dalla voglia di suonarlo. Parte così, finalmente, il bis che tutti sognavano e che speravano di ascoltare: dal primo album della band inizia la suite All of the above.

 

Ma anche questa traccia supererebbe la mezz’ora di durata e, nel corso di tutta la serata, il secondo album “A Bridge across forever” non è mai stato toccato! Così ecco che, sulle divagazioni jazz-rock di All of the above, prima che inizi il sottomovimento intitolato Camouflage in blue, si innesta in medley un’altra suite, Stranger in your soul, dal secondo disco. La fusione delle parti veloci delle due suite dai primi due album, senza cedimenti di tensione e rallentamenti, si rivela una mossa azzeccatissima per chiudere queste 3 oretransatlantic-feature1 circa di concerto in maniera veramente epica, grintosa e solenne al tempo stesso. Sorprende un po’ la scelta di non inserire in scaletta delle covers, cosa ricorrente nei Transatlantic tanto negli album di studio quanto dal vivo, ma è meglio così… non ne hanno bisogno. Il pubblico è entusiasta e, guardandosi attorno, si vede gente di tutte le età: le teste brizzolate o calve dei progsters della prima ora ma anche alcuni giovanissimi lungocriniti e persino qualche papà che canta le canzoni insieme al figlio. E sono proprio questi giovanissimi a costituire una speranza per il domani per questo genere che, alla faccia dei detrattori, ha ancora tantissimo da esprimere. Tra alcuni ragazzi si capisce, dagli sguardi, dal look, da qualche commento, che tanti sono lì per vedere l’ex-batterista dei Dream Theater e a tal proposito va spezzata una lancia nei confronti di questa band che, con la sua personalissima rilettura metallizzata del prog, ha aperto tanti orizzonti musicali nei più giovani, portandoli ad amare proposte complesse e raffinate come questa. L’amore del pubblico è trasmesso in ogni modo: i fans, infatti, durante il concerto non cantano solo le splendide melodie vocali che caratterizzano i Transatlantic, ma anche i principali temi strumentali delle varie suites. E si capisce bene perché: questi cinque musicisti continuano infatti a dimostrare che si può fare dell’ottima musica in cui la tecnica sposa la melodia, senza essere mai freddi, ipervirtuosistici e autocompiaciuti ma, al contrario, offrendo uno show perfetto ma al tempo stesso godibile ed emozionante, nota dopo nota.

 

Alberto Sgarlato
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