Katja Petrowskaja FORSE ESTHER
La letteratura mitteleuropea, da sempre pezzo forte del catalogo Adelphi, trova una nuova, interessante voce, che ha riscosso un notevole seguito di pubblico e critica, non in Italia però. Proviamo noi allora a creare interesse verso un libro pregevole e di piacevole lettura. Katja Petrowskaja, quarantenne ebrea ucraina che scrive in tedesco, decide di ricostruire la storia della sua famiglia, cercando le tracce di quelli che portano gli stessi cognomi del parentado. Inizia così una lunga caccia alla ricerca degli antenati, che riserva all’autrice, e al lettore, una serie di sorprese. Molti dei predecessori si sono dedicati all’insegnamento ai sordomuti; ma c’è anche il prozio Judas Stern, terrorista, che attentò alla vita di un diplomatico per motivi mai chiariti, e la bisnonna, di cui nessuno sa il nome (“forse Esther”, ma il signor Petrowsk la sentì chiamare sempre e solo babuška, cioè nonna), che poteva salvarsi dal lager e per eccesso di zelo non volle cambiare la propria sorte.
Nonostante molti dei temi affrontati siano più che drammatici il tono non è mai pesante, anzi è piuttosto lieve, a tratti persino divertente. Lo stile della Petrowaskaja è elegante, scorrevole, solo nel finale, quando si tirano le somme sulla Storia, si fa un po’ stucchevole, cercando troppo il lirismo. Ma ciò non inficia la lettura di "Forse Esther", che ci appare come tra i più interessanti del momento. La Storia non è finita, con buona pace di Fukuyama e dei suoi seguaci, e si sta ripetendo e non è farsa, checché ne dicesse Marx. Conoscere il passato non ci salverà dall’evitarne il ritorno, sappiamo quanto il popolo preferisca credere che sapere e pensare; ma leggere un bel libro in più non fa male, anzi, è un dono da non perdere.
Un frammento
"Eravamo felici, e tutto in me si ribellava al detto di Tolstoj che ci è stato tramandato, secondo il quale, nella loro felicità, le famiglie felici si assomigliano tutte, mentre uniche nel loro genere sono solo quelle infelici. Un detto che, adescandoci nella sua trappola, suscitava in noi la propensione all'infelicità, come se soltanto dell'infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota".