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9 Gennaio 2012 ,

Jayne Amara Ross - FareWell Poetry Intervista – Italian/English version


"Hoping for the Invisible to Ignite", l’album di debutto dei parigini FareWell Poetry è certamente uno degli album più belli che abbia ascoltato nel 2011. Se non limitiamo la nostra esperienza al semplice ascolto, potremmo scoprire che "Hoping for the Invisible to Ignite" è una costruzione stratificata che prende corpo e si sviluppa attorno all’arte visuale di Jayne Amara Ross. In attesa del tour europeo dei FareWell Poetry nel 2012, abbiamo l’opportunità di parlare con Jayne, regista, poetessa e voce dei FareWell Poetry.

 

Felice Marotta (Distorsioni) Ciao Jayne, congratulazioni per la bellezza dei tuoi film e per “Hoping for the Invisible to Ignite". Parlaci di te.

Jayne Amara Ross - FareWell Poetry  Grazie davvero! Sono nata in Australia, ma sono cresciuta in Francia e attualmente vivo a Parigi, che considero la mia casa. Ho iniziato a scrivere a 15 anni e sono arrivata ai film un poco più tardi, a 19 anni. Prima ero interessata principalmente al teatro, alla scrittura e alla direzione di opere teatrali, che ho fatto da adolescente. Mi sono avvicinata ai film sperimentali dopo il diploma di scuola superiore, lavorando con un regista su alcuni film (girati in super 8) per un’opera teatrale che avevo creato, basata sull’ “Ippolito” di Euripide. Ma non ho mai pensato di fare film io stessa sino all’anno successivo. Stavo attraversando un periodo sofferente di scelte su cosa volessi davvero fare creativamente e mi domandavo se dovevo continuare a fare teatro e rappresentazioni. Volendo sperimentare un nuovo mezzo, ritornai ad occhi chiusi sulla pellicola, acquistai senza troppi pensieri una camera super 8 e girai il mio primo film: “The Woman with the Severed Side”. Ho avuto bisogno di un anno per imparare a miscelare le sostanze chimiche per lavorare a mano i filmati che giravo e poi un altro anno per passare al 16mm, approfondire la mia comprensione di quelle apparecchiature e di conseguenza comprenderne le possibilità che avevo a disposizione. Quando mi sono trasferita a Parigi, avevo già tanto materiale che avrebbe in seguito preso forma in “As True As Troilus”  e “The Freemartin Calf". Nel frattempo avevo acquistato maggiore familiarità con i formati che stavo usando e così “Persephone, A Soft Corpse Comfort” e “The Golden House: For Him I Sought the Woods” sono arrivati in rapida successione. Per quanto riguarda la poesia, io scrivo ogni giorno e per molti versi la mia scrittura è il fulcro che mantiene insieme tutto il mio lavoro. Tutto inizia e finisce con la poesia. In tutti i miei film ed in precedenza nelle mie opere teatrali, troverete la stessa densa narrazione poetica. La differenza con il mio lavoro all'interno di FareWell Poetry è invece l'elemento live. Avevo sempre sognato di rappresentare la mia poesia e sono sempre stata innamorata dei poeti che ho amato sulla carta e che erano capaci di sviluppare forti e carismatiche rappresentazioni del loro lavoro. Penso anche che ci sia qualcosa di magico nel consentire ai film di partecipare all’energia di uno spettacolo live, un film è un medium statico, eppure questi film si leggono diversamente a seconda di come la poesia e la musica viene eseguita in quella data notte.

 

“Hoping for the Invisible to Ignite"  sta ricevendo molti elogi dalla critica. Come ha preso forma il progetto FareWell Poetry?

Nel 2009, Frédéric D. Oberland aveva avuto l’incarico di eseguire un evento di musica sperimentale a Parigi e mi chiese di unirmi a lui nel realizzare un pezzo che mettesse insieme immagini, poesia e musica. Frédéric poi chiese a Jeff (Eat Gas) di unirsi a lui nella creazione della parte musicale. Dopo questa prima performance, decidemmo di invitare altri musicisti (Stanislas Grimbert, Colin JohnCo e Stéphane Pigneul) ed i FareWell Poetry erano nati! Per molti versi credo che il collettivo sia il risultato di una chimica istantanea nata tra tutti i membri del gruppo e di alcune opportunità fortunate. FareWell Poetry è un progetto relativamente giovane e siamo davvero fortunati ad esser stati sostenuti entusiasticamente e con coraggio da molte persone che ci hanno consentito di andare avanti, pur essendo molto lontani da una qualsiasi cosa potesse definirsi “mainstream”!

 

Penso a "Hoping for the Invisible to Ignite" come una sorta di matrioska. Sotto la superficie sonora è possibile scoprire parole, immagini e gesti. Sono curioso di conoscere il processo creativo che ha dato origine al progetto. C’è un nucleo originario su quale si sono costruiti sopra i vari layer sonori/visivi oppure dobbiamo considerare "Hoping for the Invisible to Ignite" come un insieme di superfici che si intersecano tra loro?

Mi piace pensare al nostro lavoro come ad una sorta di allineamento di ciascuna parte che vi contribuisce, cerchiamo di indirizzare tutta la nostra energia creativa nella direzione di un medesimo obiettivo e spesso, quando riusciamo in questo, l’intero pezzo è superiore alla somma delle sue parti. Frédéric ed io parliamo molto dei film e della poesia, ma cerchiamo di evitare la semplice illustrazione quando questo è finalizzato alla colonna sonora; piuttosto cerco di esprimere l'essenza di quanto voglio comunicare agli altri musicisti, senza entrare troppo nei dettagli. Il mio lavoro letterario (che costituisce sempre la base anche dei miei film) si porta sempre appresso moltissime ricerche e scelte sulla struttura e sulla forma, differenti approcci semantici, gruppi di vocaboli appropriati e riferimenti, etc ... ma questo fa parte tutto di un processo molto solitario. Penso che una delle cose più belle della musica è la logica istintiva che consente ai musicisti che sono in possesso di una grande capacità di relazione di creare qualcosa di pieno ed emozionante semplicemente stando “insieme” agli altri ed ascoltandosi mentre suonano.

 

L’ascolto di "Hoping for the Invisible to Ignite" è essenzialmente una esperienza interiore. Molto emozionante, aggiungo. Spesso tendiamo ad associare la bellezza all’emozione. Come spieghi questa relazione?

Non lo so, è una domanda difficile! Penso che se ti dai completamente all'arte, con la massima sincerità, il pubblico non avrà altra scelta che percepirlo come tale. Cerchiamo di evitare di essere troppo cerebrali, anche se ci piace creare pezzi complessi con molti strati. Durante il processo creativo, così come quando stiamo sul palco, cerchiamo di essere più sinceri possibile e darci completamente alla performance, anche se questo può sembrare un po’ naïve a volte. Inutile dire che le nostre performance sono sempre molto faticose da un punto di vista emotivo. Questa esperienza è qualcosa che condividiamo sempre con il pubblico, una vera e propria catarsi!

 

In "As True as Troilus," al di là della relazione che lega passione e violenza e che ritroviamo anche nel "Troilus and Cressida" di Shakespeare, tu esplori il tema dell’impossibilità di vivere l’autenticità. Cos’è l’autenticità per te?

Non mi piace pensare che sia impossibile vivere autenticamente, è difficile ma non impossibile. “As True As Troilus” descrive la presa di coscienza che la fedeltà è un qualcosa di molto personale. Nella versione shakespeariana del racconto, quando Troilo promette di essere fedele a Cressida, lui le dice che sarà così infallibilmente fedele che dopo di lui, tutti gli uomini fedeli saranno considerati '”veri come Troilo”. Nel fare questo egli dichiarava di essere così fedele da diventare la fedeltà stessa. In questo comprendiamo che egli stava facendo molto più di una semplice promessa di fedeltà a Cressida, egli stava firmando un patto con il proprio cuore, promettendo di rimanere fedele ad esso. Il narratore nel mio poema utilizza la storia di Troilo e Cressida per raccontare il proprio fallimento in amore e così questa storia non è chiaramente uno sviluppo oggettivo di una successione di eventi ma piuttosto il resoconto dell’autentica esperienza di questo dramma interiore. Quando lei dice: 'ed io resto vero, vero come Troilo', proprio come Troilo lei non sta solo parlando della sua fedeltà al suo amante, ma sta proclamando la sincerità della propria ammissione. Il desiderio di comunicare è un desiderio di andare incontro agli altri, di iniziare con speranza una sorta di comunione, all’interno della quale ci sentiamo tutti un poco meno soli.

 

Ritornando all’analisi dei tuoi film, si è subito impressionati dall’intensità e dall’espressività del tuo uso del bianco e nero. Mi hai detto che hai sempre lavorato a mano le pellicole super 8 e 16mm nella tua camera oscura. Manipolare la materia fotosensibile sembra un’attività davvero affascinante. Pensi che questa attività possa influire significativamente sul risultato finale?

Per me l'uso di formati analogici ed il lavorare a mano o manipolare la pellicola ha molto più a che fare con l’essere a proprio agio con il processo di sviluppo. Sebbene adesso io stessa monti i miei film sul mio computer (dopo aver effettuato copie digitali delle riprese grezze) la maggior parte del mio tempo lo passo nelle riprese o nella camera oscura. E’ una esperienza molto più sensuale gestire il tuo film dal momento in cui lo carichi nella macchina da presa sino al momento in cui lo inizi a montare. Lavorare a mano la tua pellicola ti consente di manipolare il risultato finale, cambiando la formula dei tuoi rivelatori, 'maltrattando' la pellicola, creando effetti fuori-camera, o addirittura disegnando/pitturando/graffiando l'immagine sviluppata. C'è qualcosa di estremamente sensuale nel vedere i grani d'argento nel tuo filmato finale (specialmente quando usi un piccolo formato come il super 8), come se tu stessi vedendo la trama intricata di un arazzo meravigliosamente complesso. I difetti introdotti dalla lavorazione a mano aggiungono movimento e vita alle immagini ed io li inserisco con piacere nei miei montaggi finali. C'è qualcosa su queste imperfezioni che rinforza i normalmente floridi ed a volte goffi contenuti personali dei miei film.

 

"Persefone" è un film molto evocativo e duro. C’è l’idea di una forza atavica o di un insieme di forze oscure collegate alla superstizione, che mettono brutalmente in moto gli eventi. Persefone è imprigionata per la sua capacità di generare e rigenerare la vita. Una metafora che è certamente ancora attuale nel mondo in cui viviamo.

Un mio amico trovò la bambola che vedi nel film in un mucchio di spazzatura. Ero davvero affascinata da quella strana bambola che sembrava rappresentare una ragazza pubescente, con un viso da bambina ed i seni appena sviluppati. Ero così intrigata dalla bambola che il mio amico me la diede! Avevo pensato alla storia di Ovidio dello stupro di Persefone ed al suo ruolo nel spiegare le diverse stagioni. Questa bambola, come una ragazza pubescente congelata nel suo corpo, sembrava una scelta perfetta per la mia Persefone. Nel film si vede un uomo che dissotterra la bambola dal terreno freddo. Potrebbe essere Ade, il dio dell’oltretomba che ha rapito e violentato Persefone. Nella seconda scena, si vede una donna, che potrebbe essere sua madre Demetra, che cerca di coprirla e riseppellirla nuovamente nel terreno. Queste semplici e contrastanti azioni mi consentono di introdurre alcune domande più complesse: è l'uomo che sta tirando su Persefone dal terreno appena finito? O le sta offrendo la libertà che le consenta di sviluppare la propria femminilità? E per quanto riguarda la donna, sta riportando di nuovo nel terreno la bambina appena in fiore affinché possa diventare una donna in un luogo sicuro? O sta soffocando quell’individuo che desidera prendere il volo? Nella narrazione poetica ho potuto sviluppare la riflessione sui cicli naturali della creatività, utilizzando la semplice metafora delle stagioni. Inevitabilmente, tutti noi siamo posti di fronte a momenti di inattività e durante questi noi dobbiamo ricordare che la vita si agita sotto il terreno ghiacciato, come una promessa di energia creativa che sta lì a venire. Spesso suono un estratto di un film del regista ungherese Bela Tarr durante la parte strumentale della sua colonna sonora. Il brano è preso dal suo film “Satantango” durante il quale il narratore descrive gli ultimi pensieri di una bambina morente che ha compreso che tutte le cose sono connesse tra loro e che è sopraffatta da una sensazione di pace che le deriva dalla comprensione di tutto questo. Io non sono esattamente una “appassionata di cinema” né faccio spesso riferimento ad altri film nel mio lavoro ma mi sento molto vicino a Bela Tarr. Sono molto legata al suo cinema, non come regista ma come un essere umano e mi identifico realmente in Erika Bok che interpreta la bambina in “Satantango” e la figlia in “The Turin Horse”, l’ultimo suo film ed un film molto importante per me.

 

"The Freemartin Calf" emerge con una forza estetica davvero impressionante. Rispetto a "Persephone", l'angoscia appare più profonda ed intima. E’ una lettura corretta?

“The Freemartin Calf”, come “Persephone” riguarda la creatività ed i momenti dolorosi di inattività e di dubbio. Invece di indugiare completamente sulla sfera mitologica dove ogni cosa è una rappresentazione intensa di forze che interagiscono, “The Freemartin Calf” si svolge in una realtà più facilmente riconoscibile. E sì, c'è qualcosa di più intimo riguardo la costruzione di questo film, che mi permette di sviluppare i personaggi come individualità complesse, andando oltre il loro uso simbolico. In “The Freemartin Calf” ho voluto mostrare una madre che osserva la sua bambina nei primi segni di cambiamento che la porteranno ad essere un individuo autonomo. Quando la madre si rende conto che sua figlia non dipende più da lei per le cose essenziali, lei si sente in movimento verso la morte, come se la sua 'creatura' non fosse più una parte di lei. La figlia, consapevole dell’ossessione e dell’angoscia della madre, vive in una paura semicosciente che la madre stia fuori ad afferrarla per strapparle la sua forza vitale. Il titolo del film deriva da un articolo che lessi sulle vitelle sterili, vitelle femmine sterilizzate nel grembo materno dagli ormoni dai loro gemelli maschi. La madre nel film è la vitella sterile: lei soffre terribilmente per la sensazione di aver perso una parte di sé sia nella relazione con il marito sia nella relazione con la figlia. Da quando lei ha raggiunto l’apice della creatività (incarnata da sua figlia) ed essendo la sua creazione adesso indipendente da lei, lei si sente derubata della sua fertilità e della sua capacità di essere creativa. La creatività del corpo femminile è per me sinonimo di creatività artistica e così l’uso di questa immagine nel film non è stata propriamente una metafora.

 

Per "The Golden House: For Him I Sought The Woods" hai scelto di girare a colori per la prima volta. Come hai vissuto questa esperienza?

Mi è piaciuto moltissimo lavorare con il colore, ha fatto sì che il bianco e nero sembrasse davvero spento! Se tu sei brillante durante le riprese e pensi ai colori che puoi usare per i costumi e per le scenografie, hai infinite possibilità! Abbiamo girato di proposito con una pellicola al tungsteno equilibrato (realizzato per le riprese con luce artificiale) all'aperto senza l'utilizzo di filtri correttivi, questo significava che avevo tanto blu nelle immagini che ho poi accentuato durante la calibrazione. Ho anche rinunciato quasi completamente al controllo delle riprese, lavorando con un direttore della fotografia francese per il materiale girato in super 16. Anche se mi diverto a girare di persona, a volte può significare trascurare gli attori e la direzione degli attori è una delle cose che preferisco fare. Avevo sognato di usare queste lenti speciali chiamate Tilt-Shift; originariamente erano state realizzate per macchine da presa da 35mm, ma siamo stati capaci di adattarle per le macchine da 16mm con le quali stavamo girando. Queste lenti consentono una messa a fuoco selettiva, significa che puoi mettere a fuoco dove preferisci all’interno dell’inquadratura. Abbiamo anche usato lens-baby, che funzionano in modo simile. Tutto questo è stato davvero emozionante! L'intera esperienza è stata un passo in avanti per me, avendo avuto un finanziamento con cui pagare il film, le migliori attrezzature e molto più personale ad aiutarmi. Ho amato tutto questo! Ed ho girato alcune delle sequenze in super 8 che poi ho lavorato a mano e successivamente dipinto a mano, quindi non mi sono allontanata troppo dal mio procedimento abituale!

 

Hai qualche nuovo progetto imminente? Stai programmando qualcosa di nuovo con i FareWell Poetry?

Non realizzerò film per il collettivo per un po', voglio prendermi il tempo per concentrarmi su altri progetti che ho in mente. La creazione di film per le performance live dei FareWell Poetry è davvero interessante ma il format può essere molto limitante e a volte mi sento frustrata da questo. Mi piacerebbe realizzare un lungometraggio e sebbene mi renda conto che questo sia qualcosa di veramente lungo e difficile, sono pronta a tentare. “The Freemartin Calf” sarà pubblicato in DVD con un LP della colonna sonora, attraverso la Gizeh Records (la stessa etichetta britannica che ha rilasciato l'album dei FareWell Poetry), nella primavera del 2012. Sarò anche in tour con i FareWell Poetry nel 2012 e spero di avere tempo ed ispirazione per scrivere un po’ più di poesie per il progetto. Vorremmo registrare un secondo album nel 2012 che presenti i film “Persephone: A Soft Corpse Comfort” e “The Golden House: For Him I Sought the Woods” costituito come gli altri da tracce completamente strumentali e spoken word.

 

Jayne, grazie davvero per questa conversazione. Quando potremo vederti con i FareWell Poetry a Roma?

Grazie Felice per le tue domande davvero riflessive! Ci piacerebbe venire a Roma! Il nostro agente di booking in Francia (Adrien Durand della Kongfuzi Booking) è molto appassionato al progetto e ha già fatto tanto per la band. Forse ci organizzerà un tour in Italia, so che Stef (Stéphane Pigneul, bassista anche degli Object e di Ulan Bator) ha girato molto per l’Italia e probabilmente ha qualche idea a riguardo. Tuttavia è un poco complicato da un punto di vista tecnico, abbiamo bisogno di spazio per proiettare i film e di un palco abbastanza grande per contenere tutti noi sei insieme a tutta la nostra attrezzatura!

                                                                                        

 

 

Interview with Jayne Amara Ross

"Hoping for the Invisible to Ignite", the debut album of Parisian collective FareWell Poetry is certainly one of the most beautiful albums that have I listened to in 2011. If we refrain from limiting our experience to simply listening to the music, we can discover a layered construction that takes shape and develops around to visual art of Jayne Amara Ross. Waiting for their 2012 European Tour, we have the opportunity to talk with Jayne, filmmaker, poet and the voice of FareWell Poetry.

 

Hi Jayne, congratulations on the beauty of your film and for “Hoping for the Invisible to Ignite". Tell us something of you.

Thank you very much! Well, I am an Australian national but I grew up in France and currently live in Paris, which I consider to be my home. I have been writing since the age of 15 and came to film a little later, at the age of 19. Before this I was mainly interested in theatre, in writing and directing plays, which I did as a teenager.

I was introduced to experimental film after graduating from high school by working with a filmmaker on some films (shot on super 8) for a performance piece I created based on Euripides’ Hippolytus. But I didn’t think of making films myself until a year later. I was going through a really painful period of deliberation on what I wanted to do creatively and wondering whether I should stick to the medium of theatre and performance. Wanting to try another medium, I turned blindly to film, bought a super 8 camera without too much thought and shot my first film ‘The Woman with the Severed Side’. It took me a year to learn how to mix the chemicals to hand-process the footage I shot for this film and then another year to move onto 16mm and deepen my understanding of the equipment I was using and the possibilities that were available to me. When I moved back to Paris, I already had a lot of material that would later form the films ‘As True As Troilus’ and ‘The Freemartin Calf’. And by then I was better acquainted with the formats I was using and so ‘Persephone, A Soft Corpse Comfort’ and ‘The Golden House: For Him I Sought the Woods’ came after that in quick succession.

As for the poetry, I write every day and in many ways my writing is the lynchpin that holds all my work together. Everything starts and ends with the poetry. In all my films, and in my theatre plays before that, you will find the same dense poetic narration. The difference with my work within FareWell Poetry is the live element. I had always dreamt of performing my poetry and was enamored with the poets that I loved on paper and who were also able to deliver strong and charismatic performances of their work. I also think that there is something quite magical in allowing the films to participate in the energy of live performance, film is such a static medium and yet these films read differently depending on the way the poetry and music is performed on any given night.

 

“Hoping for the Invisible to Ignite" has received much critical praise. How did the project FareWell Poetry take shape?

In 2009, Frédéric D. Oberland was commissioned to perform at an experimental music event in Paris and asked me to join him in creating a hybrid piece that combined film, poetry and music. Frédéric then asked Jeff (Eat Gas) to join him in creating the musical part. After this first performance, we decided to invite other musicians to join us (Stanislas Grimbert, Colin JohnCo and Stéphane Pigneul) and FareWell Poetry was born! In many ways I think the collective is a result of the instant chemistry between all the members and a few lucky opportunities. FareWell Poetry is a relatively young project and we have been very lucky to be buoyed up by a lot of very passionate and fearless people who have allowed us to move forward, despite being very far from anything ‘mainstream’!

 

I think to "Hoping for the Invisible to Ignite" like a kind of matryoshka. Underneath the sonic surface we may discover words, images and gestures. I'm curious to understand the creative process of the project. Is there a original nucleus on which the various sonic/visual layers are built or should we consider "Hoping for the Invisible to Ignite" as a set of surfaces that intersect each other ?

I like to think of our work as a sort of alignment of each contributing part, we try to turn all our creative energy towards the same goal and often, when we succeed in doing this, the whole piece exceeds the sum of its parts. Frédéric and I talk a lot about the films and poetry but we try to avoid simple illustration when it comes to the soundtrack, rather I try to communicate the essence of what I am trying to say to the other musicians without going into detail. My literary work (which is always the basis for the films also) always involves a lot of research and deliberation on structure and form, different semantic approaches, groups of appropriate vocabulary and references etc. but this is all part of a very solitary process. I think that one of the beautiful things about music is the instinctive logic that allows musicians who have a great creative relationship to create something full and exciting simply by being ‘together’ and listening to each other play.

 

Listening to "Hoping for the Invisible to Ignite" is essentially an inner experience. Really emotional, I might add. Often we associate beauty with emotion. How do you explain this relationship?

I don’t know, that is a tricky question! I think that if you give yourself entirely to the art that you are making, with the utmost sincerity, the audience will have no choice but to receive it as such. We try to avoid being too cerebral even if we enjoy creating complex pieces with many layers. During the creative process, just as when we are on stage, we try to be as sincere as possible and give our all to the performance, even if that means that we seem a little naïve at times. Needless to say, our performances are always really emotionally tiring for us. Hopefully this experience is something we share with the audience, a real catharsis!

 

In "As True as Troilus," beyond the link between passion and violence which we also find in Shakespeare’s "Troilus and Cressida", you explore the theme of the impossibility to live authentically. What is authenticity for you?

I don’t like to think that it is impossible to live authentically; it is difficult but not impossible. ‘As True As Troilus’ is about realizing that fidelity is a very personal thing. In Shakespeare’s version of the tale, when Troilus promises to be faithful to Cressida he says that he will be so infallibly faithful to her that all faithful men after him will be deemed ‘as true as Troilus’. By doing this he is claiming to be so true that he has become truth itself. It is in this that we understand that he is doing more than just promising to be faithful to Cressida, he is signing a pact with his own heart, promising to stay true to it.

The narrator in my poem uses the Troilus and Cressida story to tell us of her own failed love affair and so clearly this story is not an objective rendering of the sequence of events but rather a statement of the narrator’s true experience of this tragedy. When she says ‘and I stay true, as true as Troilus’, just like Troilus she is not only talking about her fidelity to her lover, she is also proclaiming the sincerity of her confession. The desire to communicate is a desire to reach out to others, hopefully initiating some kind of communion, in which we all feel a little less lonely.

 

Turning to the analysis of your films, one is immediately impressed by the intensity and expressiveness of your use of black and white. You told me that you have always worked by hand in your darkroom, on super 8 and 16mm film. Manipulating the photosensitive matter seems like a very beautiful activity. Do you think that this activity significantly affects the impact of the final result?

For me the use of analog formats and the act of hand-processing or manipulating film is more to do with being comfortable with the process. Although I now edit my films on my computer (after making digital copies of the raw footage), most of my time is spent shooting or in the darkroom. It’s a much more sensual experience to handle your film from the time you load it into the camera to the moment you begin editing. Hand-processing your own film allows you to manipulate the final result by changing the formula of your developers, ‘mistreating’ the film as its processed, creating out-of-camera effects, or even drawing/painting/scratching the developed image. There is something about seeing the grains of silver in your final footage (especially when you are using a tiny format like super 8) that is extremely sensual, as if you were looking at the intricate weave of a beautifully complex tapestry. The defects that come with hand-processing give movement and life to the images and I happily incorporate these into my final edits. There is something about these imperfections that serve the generally florid and at times clumsily personal content of my films.

 

"Persephone" is a very evocative and tough film. There is the idea of an atavistic force, or a set of dark forces related to superstition, which sets the events brutally in motion. Persephone is imprisoned in her function of generating and regenerating life. A metaphor that is certainly still relevant to the world in which we live.

A friend of mine found the doll that you see in the film in a heap of rubbish. I was really fascinated with this strange doll that seemed to represent a barely pubescent girl, with a child’s face and budding breasts. Seeing that I was so intrigued by the toy, my friend gave it to me! I had been thinking about Ovid’s story of Persephone’s rape, and her role in explaining the different seasons. This doll, like a pubescent girl frozen into her body, seemed like a perfect choice for my Persephone. In the film, you see a man dig the doll up from the cold ground. This could be Hades, the God of the Underground who raped and kidnapped Persephone. On the second screen, you see a woman, who could be her mother Demeter, attempting to cover her up and burry her back in the ground. These very simple, contrasting actions, allowed me to introduce some more complex questions: is the man pulling her from the ground barely finished? Or is he offering her freedom by allowing her to make the transition into womanhood? And as for the woman, is she putting the burgeoning girl back into the soil where she can grow into a woman in safety? Or is she suffocating the individual who desires to take flight? In the poetic narration, I was able to deliberate on the natural cycles of creativity, by using the simple metaphor of the seasons. Inevitably, we are all faced with moments of inactivity and during these we must remember the life that stirs beneath the frozen soil, a promise of the creative energy to come.

I often play an excerpt of a film by the Hungarian filmmaker Bela Tarr during the instrumental part of the soundtrack. The excerpt is taken from his film Satantango during which the narrator of the film relates the last thoughts of a dying little girl who has come to understand that all things are connected and is overwhelmed with the peaceful feeling that comes with this realization. I am not exactly a ‘film buff’ nor do I often reference other films in my own work but I feel very strongly about Bela Tarr. I am very attached to his cinema, not as a filmmaker but as a human being, and really identify with Erika Bok who plays the little girl in Satantango and the daughter in The Turin Horse, his latest film and a very important film to me.

 

"The Freemartin Calf" emerges with very impressive aesthetic force. Compared to "Persephone", the angst appears deeper and more intimate. Is this a correct reading?

‘The Freemartin Calf’, like ‘Persephone’ is about creativity and painful moments of inactivity and doubt. Instead of lingering in the purely mythological realm, where everything is a heightened representation of interacting forces, ‘The Freemartin Calf’ takes place in more easily recognizable reality. And so, yes, there is something more intimate about this film’s construction, allowing me to develop the characters as complex individuals, going beyond their symbolic use.

In ‘The Freemartin Calf’, I wanted to show a mother witnessing her little girl in the first throes of becoming an independent individual. As the mother realizes that her daughter is no longer dependant on her for the most basic things, she feels herself moving towards death, as if her ‘creation’ was longer a part of her. The daughter, aware of her mother’s obsession and angst, lives in semi-conscious fear that her mother is out to get her, to rip her life force from her.

The title comes from an article I read about freemartin calves, which are female calves sterilized in the womb by hormones from their male twin. The mother in the film is the freemartin calf: she suffers terribly from the feeling that she has lost a part of herself in both her relationship with her husband and with her daughter. Since she has attained this acme of creativity (embodied by her daughter) and that her creation is now independent from her, she feels robbed of her fertility/her ability to be creative. The creativity of the female body is synonymous with artistic creativity for me and so using this image in the film was not really a metaphor.

 

For "The Golden House: For Him I Sought The Woods" you chose to shoot in colour for the first time. How did you experience this change?

I really loved working in colour, it made black and white seem really dull! If you are smart during the shoot and think about the colours you use in the costumes and sets, there are infinite possibilities! We deliberately shot with tungsten balanced film (made for shooting in artificial light) outdoors without using any correction filters, this meant that I had a lot of blue in the images which I accentuated during calibration. I also relinquished almost total control of the shooting process by working with a French DP for the stuff shot on Super 16. Although I enjoy shooting myself, it can sometimes mean that you neglect the actors and directing the actors is one of my favourite parts. I had been dreaming of using these special lenses called Tilt-Shift lenses for ages, originally they are made for 35mm cameras but we were able to adapt them to fit the 16mm camera we were shooting with. These lenses allow for selective focus, meaning that you can create the focus where you want in the frame. We also used a lens-baby, which works in a similar way. So that was really exciting! The whole experience was a step up for me, with funding to pay for the film and better equipment and more people to help. I loved it! And I shot some of the sequences on super 8 which I hand-processed then hand-painted, so I wasn’t venturing too far from my usual process!

 

Do you have any upcoming projects? Are you planning something new with FareWell Poetry?

I won’t be making any films for the collective for a while, I want to take the time to concentrate on some other projects that I have in mind. Creating performance films is really interesting but the format can be quite limiting and sometimes I am quite frustrated by this. I would like to make a feature film and although I realize that this is a really long and difficult process, I am willing to give it a try.

‘The Freemartin Calf’ will be released on DVD with an LP of the soundtrack via Gizeh Records, the same UK label that released the FareWell Poetry album, in Spring 2012.

I will also be touring with FareWell Poetry in 2012 and I will hopefully have the time and inspiration to write some more poetry for the project. We would like to record a second album in 2012 that will feature the films ‘Persephone: A Soft Corpse Comfort’ and ‘The Golden House: For Him I Sought the Woods’ as well as other purely instrumental and spoken word tracks.

 

Jayne, thank you very much for this conversation. When will we see you and FareWell Poetry in Rome?

Thank you Felice for your really thoughtful questions!

We would love to come to Rome! Our booking agent in France (Adrien Durand from Kongfuzi Booking) is very passionate about the project and has already done a lot for the band. Perhaps he will organize a tour in Italy for us, I know that Stef (Stéphane Pigneul, also bass player in Object and Ulan Bator) has toured extensively in Italy and probably has some ideas. We are a bit technically complicated though, we need space to project the films and a stage big enough to fit the whole 6 of us with all our gear!

Felice Marotta
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