Dirty Three TOWARDS THE LOW SUN
[Uscita: 28/02/2012]
# Consigliato da DISTORSIONI
Esce dopo sette anni di silenzio il nuovo capitolo della discografia dello straordinario trio australiano formato dal magnifico violinista Warren Ellis (che ha il suo bel daffare visto che è titolare di colonne sonore con Nick Cave e membro effettivo dei Bad Seeds e dei Grinderman), dal batterista Jim White e dal chitarrista Mick Turner. Disco che segna il ritorno alla formula completamente strumentale dopo il tentativo dell’utilizzo delle voci, non troppo riuscito a dire il vero, di “Cinde”. Con una copertina di nuovo tratta da un dipinto di Mick Turner, "Towards The Low Sun” si apre con Furnace Skies, straniante attacco tra psichedelia, free jazz e vaghi rimandi alla Corte dei King Crimson e ai Can; brano sorretto dalla straordinaria batteria di Jim White e da una chitarra circolare che trova la sua naturale prosecuzione nella successiva Sometimes I Forget You've Gone, song che presenta una linea melodica costruita sul pianoforte e proiettata su uno sfondo creato da un incessante e caotico drumming. Dirty Free più che Dirty Three.
Un pianoforte alla Nick Cave, di una dolcezza sconfinata, abbinato a un magnifico e sognante violino, segna anche l’ eterea Ashen Snow più avanti in scaletta. Il brano appena citato, la stupenda Moon On The Land - dolce ballata dalle cadenze folleggianti, caratterizzata da un ispirato duetto tra violino e chitarra acustica con alle spalle una batteria più tradizionale - e Rain Song, sono le canzoni più evocative di certi paesaggi polverosi australiani e più di altre rimandano alle antiche malinconie del capolavoro del 1998, lo stupendo e imperdibile “Ocean Songs”. Cadenze (post)rock per Rising Below e That Was Was, con il violino suonato come una chitarra elettrica distorta (dal vivo W. Ellis suona dando la schiena al pubblico, viene da chiedersi se lo fa anche in studio verso i suoi sodali), mentre è più introspettiva e vicina al blues la conclusiva You Greet Her Ghost alla quale è affidato il compito di chiudere un disco davvero notevole che sarete ben felici di mettervi in casa.
Roberto Remondino
Detto che le definizioni non mi appassionano, c'è questo genere, o sottogenere che chiamano post-rock. È una roba tutto sommato piuttosto indefinita, dentro ci stanno i Tortoise e Sufjan Stevens, To Rococo Rot e Don Caballero, che, presi uno per uno, meriterebbero una definizione a testa. Questi “Sporchi Tre” poi sono veramente degli irregolari, a partire dalla formazione, a base di violino (Warren Ellis), chitarra e tastiere (Mick Turner) e batteria (Jim White), originari dell'Australia, attualmente sparsi tra Francia, Stati Uniti e Melbourne, insieme dal 1992, ma in modo piuttosto aperto, visto che il front-man Ellis ha militato in pianta stabile anche con i Bad Seeds e con i Grinderman del connazionale Nick Cave, Turner e White hanno portato avanti il side project Tren Brothers e hanno collaborato con personaggi del calibro di Cat Power, PJ Harvey e Bonnie “Prince” Billy.
Tanto per non farsi mancar niente, il buon Mick Turner è un pittore di una certa fama (e, a tempo perso, ha illustrato quasi tutti gli album del gruppo) e porta avanti un avviato studio di registrazione con annessa etichetta discografica nella natia Melbourne. Questo lavoro esce a distanza di sette anni dall'ultimo “Cinder”, disco in tono minore rispetto agli esordi, ma il gruppo ha portato avanti senza sosta l'attività dal vivo, che, a detta di chi ha avuto occasione di vederli, è quella che gli riesce meglio, in cui l'ormai naturale intesa tra i tre genera performance tanto precise quanto vigorose, sull'onda di un'improvvisazione che li avvicina al free jazz. Che, in questo nuovo disco è la prima influenza a saltare agli occhi, nella splendida opener Furnace Skies, atmosfera degna del film “Dune”, di David Lynch, una cavalcata nel deserto sul verme delle sabbie, con la colonna sonora di una batteria schizofrenica, di una chitarra in feedback, accompagnati da pennellate di violino e tastiere dissonanti.
Dopo un tale folgorante inizio, si pone il problema di mantenere il livello. È difficile, ma i nostri si applicano e ci riescono. Il ritmo cala e le atmosfere si fanno più malinconiche come nella notturna Moon On The Land, compaiono influenze progressive ad esempio in Rising Below, che mi ricorda episodi crimsoniani, quindi lo spleen di The Pier: siete mai stati su un molo al tramonto a guardare l'oceano? Ecco, questo pezzo mi fa quell'effetto lì. Eccoci alle conclusioni: un lavoro notevole, insomma, forse non per tutte le orecchie, con la perla di Furnace Skies a nobilitarlo. Il consiglio, anche per le orecchie più scettiche, è di provare ad ascoltarlo, mettendoci l'attenzione che si merita. Non vi deluderà. Luca Sanna