Screaming Females ROSE MOUNTAIN
[Uscita: 24/02/2015]
USA
Screaming Females, trio del New Jersey, ritorna col sesto album. Dopo gli esordi ed il lavoro affidato a Steve Albini, nel 2012 per “Ugly” e nel 2014 per “Live at the Hideout”, i paladini del 'do it yourself' collaborano, questa volta, con Matt Bayles, già ai controlli con Mastodom e Sword. Dobbiamo dimenticare il punk furioso e sperimentale delle primissime auto produzioni, perché qui siamo di fronte a qualcosa di diverso dai lavori precedenti. Un album che mostra cosa il trio può fare se gli si concede maggior tempo in sala di registrazione ed attenzione per i dettagli. Il singolo Wishing Well, qui contenuto, era molto bello, ma in certa misura fuorviante con l'intro da surfing-beginner e ritmi shuffle, a disorientare l'ascoltatore con trame chitarristiche ossessive, ma imbrigliate nel sottofondo di lontananza. Il canovaccio dell'intero disco sono partenze con basso pulsante, stile SST/Sub Pop, e figurazioni percussive iperprodotte, quasi sempre troppo plastificate, che echeggiano le evoluzioni della voce invece di limitarsi a marcare quattro accenti ogni battuta. Su tale tessitura si innestano armonie indie delicate, prontamente sporcate ed alternate dai deliri della chitarra di Marissa Paternoster e dalla sua voce che, in un attimo, si trasforma da soave a demoniaca, mantenendo la propria aura magica, fascino, prova di relazione causale tra adolescenza e rock'n'roll. I riferimenti non sono più le Sleater-Kinney, ma i Black Sabbath, con il santino di Tony Iommi imprigionato tra le corde della chitarra. I riffs e gli assoli non sono per niente originali, ma suonati in modo tale da rendere il lavoro troglodita e retrogrado, e, al tempo stesso, sperimentale ed avanguardistico.
Tre accordi di compressa paranoia woodoo, urgenza ossianica e suoni quasi destrutturati e minimali che vanno quasi a creare una lastra sonora. Una chitarra-giaguaro col cuore colmo di cromo liquido. Ritmi rallentati a significare imponenza e maestosità, abecedario del disastro. Un trituratore degno di una band hard-rock vintage, ma senza auto indulgenza o sprechi. Ogni suono, dove anche il più roboante degli assoli di chitarra, è finalizzato alla ricerca della forza pura. I testi sono dettati dal tedio e dall'indifferenza. Sono piatti, annoiati, cinici e si ergono al di sopra del suono altezzoso e monumentale, nuda essenza del rock. “I said peel the skin raw” urla, con voce quasi paradossalmente tenorile, Marissa in Ripe, ma il disco ha anche una solida sensibilità pop. Canzoni come la sopracitata Wishing Well ed Hopeless mostrano che la scrittura può fondarsi su sentimenti profondi a fuggire dall'ombra del punk con emozionante intensità. Un album che probabilmente andrà ad incrementare ulteriormente il notevole hype che circonda la band e la frontwoman impegnata in molteplici progetti, dai comics alla scrittura, i quadri... Insomma, la ragazza cui l'arte ha salvato la vita alla high-school, facendola accettare nelle sue stranezze, perché riconosciuta, fin da allora, artista, ne ha fatta di strada per assicurarsi la normalità nella diversità, persa nelle sue schizofreniche molteplici attività. E pure tanta è la strada percorsa da quel giorno quando quattordicenne se ne stava ad ascoltare i Nirvana nella sua cameretta, quando suo padre entrò per informarla che, se fosse stata interessata, lui avrebbe saputo insegnarle come suonare quelle canzoni.
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