Chelsea Wolfe PAIN IS BEAUTY
[Uscita: 03/09/2013]
Si alza sempre una fitta nebbia riguardo alle origini ed informazioni sulla californiana Chelsea Wolfe. Di lei non si conosce la data di nascita, il suo vero nome ma solo un background musicale coltivato fin dalla tenera età grazie ai soliti lungimiranti genitori. Anche se le sue incisioni risalgono a soli tre anni fa si è conquistata una bella fetta di notorietà nell'ambiente underground, quantomeno in ambito femminile. Certo non è nè sarà mai la nuova Pj Harvey ma nemmeno la grande Carla Bozulich però questa ragazza ha talento da vendere oltre ad un’immagine accattivante ed un alone di mistero che tanto piace al pubblico del grande circo rock. La sua musica è stata di volta in volta definita folk, fra apocalittico doom o gotico - scegliete voi - e le sue composizioni in effetti hanno sempre quel tanto di inquietante per ammaliare e turbare i suoi ascoltatori. A fine 2010 il suo disturbante debutto a nome "The grime and the slow" aveva fatto gridare al miracolo, con il suo mix perfetto di cupe ballate pianistiche dark folk ed episodi di scarno post punk grazie ad una voce che aveva più di un punto di contatto con la regina delle tenebre Siouxsie Sioux. La californiana faceva tutto da sola o quasi con rumori annessi e sperimentalismi a go-go. Rimane a tutt'oggi la sua cosa migliore. Il giochino le riusciva molto bene anche nel seguente cupo "Apokalypsis" (2011) ricco di claustrofobiche canzoni con la Harvey e la Bozulich ad osservare da dietro la cattedra la loro allieva migliore. Ancora più rarefatto il disco dell'anno passato intitolato "Unknown rooms: A collection of acoustic songs" che rivelava il lato più delicato e melodico della ragazza di Sacramento.
Adesso nel nuovo "Pain is beauty" Chelsea Wolfe riattacca la spina e ritorna ad un suono più pieno con un disco più corposo anche se sempre rallentato. La Feral love che apre le danze vocalmente parlando è pura Siouxsie di "Ju Ju" e non è il solo episodio che la ricorda. Di certo qui non ci sono le poderose percussioni di Budgie ma spesso solo una chitarra distorta ed una voce tenebrosa e solo We hit a wall e The warden hanno i ritmi ed il sound di 30 anni prima. Belli i violini di House of metal che si prolunga per oltre 5 minuti, gli stessi delle glaciali Sick e They'll clan when you're gone, funeree ed angoscianti ballate. Kings, Reins e Ancestors, the ancient hanno più di un punto di contatto al punto di chiedersi se non siano la stessa canzone. Resta da parlare della long track a nome The waves have come che si dilata per quasi 9 minuti con voce piano e svolazzi orchestrali assortiti. Niente di clamoroso ad ogni buon conto. Un disco in chiaroscuro ed alla lunga anche monotono ma che fa intravedere le grandi potenzialità della sua interprete, spesso però vanificate da composizioni che sono di frequente l'eco di se stesse. L'impressione è che Chelsea Wolfe abbia nelle sue corde, non solo vocali, la capacità di tirar fuori un disco di livello alto ma che non trovi l'ispirazione o forse il coraggio di cambiare ed uscire dai soliti binari che ripercorre regolarmente da tre anni a questa parte. La californiana con questo "Pain is beauty" ha purtroppo perso l'ennesima occasione per stupire come l'espressione assorta/riflessiva dipinta sul suo volto nel bello scatto di copertina sembra indicarci. Forse solo una perfetta conoscenza dell'inglese può farcela apprezzare maggiormente a livello di testi ma per il resto per noi è soltanto un altro talento inespresso.
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