Fuzz II
[Uscita: 23/10/2015]
Stati Uniti #consigliatodadistorsioni
Fortuna per noi che Ty Segall qualche volta decide di scendere sulla terra. Dopo l’acclamatissimo “Manipulator”, il nostro torna dietro alle pelli dei Fuzz, progetto condiviso con l’onnipresente Charles Moothart (chitarra) e con Chad Ubovic dei Meatbodies al basso (che sostituisce Roland Casio dall’ottobre del 2013). L’esordio auto titolato chiariva bene gli intenti della band ma veniva bollato come sostanzioso divertissement ancora troppo acerbo.
L’approdo ad una radice “proto-metal” dei tre freak dediti al garage-rock dwyeriano aveva destabilizzato gli umori della platea indie americana: a ben guardare, i Fuzz nel giro di soli due anni hanno già imposto una nuova tendenza nei costumi musicali dei giovani d’oltreoceano (basti pensare a gente come The Crypt o Fogg). Esce quindi un nuovo disco, sempre per In The Red Records, che per mantenere fede all’esordio si avvale di un titolo minimale, “II”, e alle copertine di Tatiana Kartomten. Nel primo disco avevamo scoperto di quanto Segall fosse bravo alla batteria, ma anche sperimentato tutti i limiti di un drumming un po’ invasivo e a volte eccessivo. In II il ruolo di Segall, se non ridimensionato appare comunque maggiormente funzionale ad un ottimo disco.
L’atmosfera non è più quella di una jam tra amici; l’atteggiamento vira verso la costruzione di una propria personalità; le canzoni muovono dalle schitarrate epilettiche e rulli di tamburo selvaggi verso un hard rock raffinato e complesso, zeppo di cambi di tempo e melodia. Nel complesso, II è figlio di un trio compatto e non di un Ty Segall con due scagnozzi al seguito, ne è la riprova il vero concetto che sta dietro l’operazione: la distorsione e il muro di suono che si possono generare. Se gli idoli del passato erano i Sabbath, Hawkwind, Blue Cheer o Groundhogs in II l’uso smodato e costante della distorsione fa pensare soprattutto a chi negli anni ’90 raccolse le eredità del rock del rumore, Kyuss, Sleep e Tool. Un'atmosfera più infernale ed ipnotica che feroce si esplica nei 7 minuti iniziali di Time Collapse/The 7th Terror dove la chitarra di Moothart è assoluta protagonista in giri di blues demoniaco (ma gli assolo tradiscono una lezione imparata da Kramer o Asheton) mentre Segall canta impossessato “the terror within inside me swallows”.
Rat Race aumenta il ritmo e costruisce un boogie martellante e coinvolgente, altri episodi virano verso soluzioni più melodiche (Let It Live, Silence Sits the Dust Bowl, Bringer of Light) senza mai rinunciare ai riff ruvidi di chitarra e a ricadute blues. I sabba desertici, frutto della scuola californiana, sono tra i pezzi migliori (Pollinate, Pipe, Say Hello e Burning Wreath che sembra un outtake di “Blues For The Red Sun”) e non mollano un attimo l’animo blues per ricondurlo in un inferno di sferragliate di ipnotico garage punk. Poi Red Flag, Sleestak, New Flesh, episodi minori che non invidiano nulla alla furia selvaggia di Mc5 o Stooges e la dose è rincarata dagli assolo luciferini di Jack The Maggot.
Un disco non leggero, non allegro, non divertente dove i 13 minuti finali della title-track non sono un coronamento ma il vero e proprio capolavoro: la batteria si lancia a rotta di collo verso un muro di distorsioni e feedback di chitarra che pian piano si avviluppano in una spirale di rumore psichedelico. Fuzz non hanno solo venduto l’anima al diavolo ma hanno anche consegnato uno dei dischi migliori dell’anno.
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