The Strokes Comedown Machine
[Uscita: 26/03/2013]
Agli Strokes è successo quello che è accaduto a talune formazioni che si sono costruite un gran blasone con esordi fulminanti che hanno fatto gridare al miracolo, e che, sia pure con modulazioni affatto differenti per ciascun singolo caso, successivamente si sono annientate, per una sorta di oscura “cupio dissolvi”, come mere parvenze spettrali. Da dischi di ottimo pop-rock, aggressivi e dalla lucida cromatura, come “Is This It” o “Room On Fire”, una decina d’anni or sono, gli ex giovani virgulti del buon Casablancas sono passati alla ineffabile congerie di banalità soniche di questo “Comedown Machine”. Undici frammenti di insulso easy-pop, inframmezzato da qualche buona ‘giocata’, qua e là, a rammentarne l’antico fulgore, quasi in uno struggimento nostalgico di sonorità irripetibili. Casablancas è qui affiancato da Nick Valensi e Albert Hammond Jr. alle chitarre, Nikolai Fraiture al basso e Fabrizio Moretti alla batteria. Tap Out rappresenta l’incipit programmaticamente emblematico dell’intero cursus stilistico dell’album: una voce modulata nel tono del falsetto dispiegata, si fa per dire, sopra un tappeto sfilacciato di note di pop da canzonetta Fm.
Più aggressiva, almeno nelle intenzioni, è All The Time, dove la voce di Casablancas recupera un po’ di vigore e gli strumenti sono istradati verso un suono più compatto. One Way Trigger è assolutamente imbarazzante, col suo impianto da canzoncina per under 14, mentre sorvolando con un sospiro di sollievo su un brano come Welcome To Japan, tentativo abortito di synth-pop, un po’ di vivido sangue musicale viene immesso nella sin troppo anemica struttura del disco, da 80’S Comedown Machine, in cui i toni assurgono finalmente a un livello dignitoso, la voce si fa più aggressiva e graffiante e la sezione ritmica lavora di buona lena a rimorchio. Una discreta traccia è anche 50/50, dove almeno la sgradevole sensazione di banalità che permea l’idea stessa dell’insieme assurge allo stato aeriforme per un attimo. Dopo un paio di ulteriori brani di irriferibile costrutto, Chances pare inclinare verso un suono più pieno, techno-pop non disprezzabile con inserti chitarristici scolastici ma corretti; Happy Ending e soprattutto la conclusiva Call It Fate Call It Karma, con i suoi ridicoli dirupamenti in grovigli di falsetti e melliflui sdilinquimenti al saccarosio, chiudono come una lastra tombale un disco veramente imbarazzante, patinato sino all’eccesso, pleonastico nelle trame musicali, scontate e superficiali. Un disco da contrazioni epatiche multiple.
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