The Pines ABOVE THE PRAIRIE
[Uscita: 05/02/2016]
Stati Uniti #consigliatodadistorsioni
Assenti dallo studio da quattro anni, i Pines -di Minneapolis come i Replacements e come i Soul Asylum, come i Son Volt ma anche Prince- si caricano di buonissime intenzioni nell'organizzare il lavoro di "Above The Prairie", il loro quinto album. La loro puntuale biografia dice che il Midwest sta a questa band come la Monument Valley sta al cinema di John Ford. I Pines sono un tutt'uno con la loro terra di provenienza, aggiungiamo per semplificare. Verissimo.
Come le amate roots band elencate sopra, anche questi ragazzi del Minnesota celebrano a modo loro il rapporto con i luoghi d'origine. Lo fanno con la calda sostanza di una strumentazione prevedibile (le chitarre acustiche ed elettriche, il banjo dove serve) ma c'è qui una certa abbondanza di soluzioni altre, avvolgenti, tenebrose, ricche di mistero. Loop e tappeti che impreziosiscono la scrittura e la rendono più intrigante. Come nell'iniziale Aerial Ocean, in cui prima dell'ingresso di una chitarra ritmica e della voce sembra davvero di sorvolare i mari e di osservare il mondo dall'alto. Come nella strumentale Lost nation, che abbandona le atmosfere standard del songwriting di periferia impastato di country e di folk per avvincere con un appassionato passo che sembra avere a che fare col cinema.
Schiette e sincere suonano Where something wild still grows e There is spirit, brillante esempio di alt-country dai toni volutamente sommessi che in questo contesto anzichè appesantire rischiara come luce che filtra in una casa con le imposte socchiuse e qualche divano accogliente all'interno. I due compositori David Huckfelt e Benson Ramsey possiedono l'affiatamento che avevano Jeff Tweedy e Jay Farrar negli Uncle Tupelo, quando era ancora imprevedibile che uno andasse a formare i Wilco e l'altro i Son Volt. C'è del talento in queste canzoni e nel pensiero diffuso dell'album, tutti incentrato sui valori della terra, sulle sensazioni che questa dà e su quanto toglie.
La vastità degli spazi, l'incessante passare del tempo, la bellezza del Pianeta e la solitudine che può regalare a chi lo popola sono temi che attraversano questa musica da ascoltare preferibilmente davanti a un tramonto di quelli che si vedono laggiù, terra di praterie. Laggiù, abbiamo mancato di ricordarlo all'inizio, è nato un certo Bob Dylan, presenza che abbiamo avvertito in 12790 dischi ascoltati fino ad oggi e che anche qui -bisogno di aggiungerlo non ce ne sarebbe- è un fantasma seduto con discrezione in un angolo lontano dalla vista.
C'è nella splendida e scorrevole Hangin' from the earth, che al netto di un drumming alla I'm on fire dispensa una scrittura che raccoglie briciole sparse di ciò che resta oggi del Dylan dei Sessanta. Esattamente come fa Come what is, altra perla, che anche nell'approccio vocale di Huckfelt (più dylaniano rispetto a quello di Ramsey) gira come un'outtake da "The freewheelin'".
Una menzione speciale la merita la conclusiva Time dreams perché tutti gli obiettivi del disco sembrano qui raccolti nel testo letto da John Trudell, l'autore nativo americano scomparso lo scorso anno che ha lasciato questa poesia. Intorno alla voce di Trudell, che emoziona non poco e che lega solitudine, verità, disconnessione dal suolo, la strumentazione deliziosa e i cori dei Pines, tutti insieme per celebrare la vita con la voce di un amico musicista e poeta, un uomo di cuore e impegno, che non c'è più. Tutto bellissimo. E naturalmente raccomandabile se a casa vostra, sprofondati in un divano che non lo sapete ma arriva dal Minnesota, ascoltate di solito i Fleet Foxes, Ryan Bingham e Justin Townes Earle. Si potrebbero fare altri nomi per mettervi a vostro agio ma questi bastano e avanzano
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