L’intervallo Leonardo di Costanzo
Presentato nella sezione “Orizzonti” dell’ultimo festival di Venezia, L’Intervallo è una piccola sorpresa, e porta attenzione su un nome, quello del regista Leonardo Di Costanzo, documentarista molto stimato all’estero (e ignoto al pubblico italiano; ma questo, purtroppo, non ci stupisce), qui alla sua prima prova nel cinema di finzione. Un’adolescente napoletana che ha fatto uno sgarbo al “Sistema” viene segregata per una giornata in un enorme edificio abbandonato, in attesa di essere “giudicata” dal boss del quartiere; a sorvegliarla viene chiamato un suo coetaneo, che non ha certo l’indole del carceriere. “L’intervallo” è un film piccolo, conscio dei propri limiti ma capace di trasformare questi limiti in virtù, quelle virtù di un cinema che riesce ad affrontare temi importanti senza retorica e con un laicismo politico e morale che è davvero cosa rara nel cinema cosiddetto engagè prodotto in Italia in questi anni. Il film di Di Costanzo offre uno sguardo nuovo e diverso su un tema assai affrontato, e anche bene, da molti registi, e lo fa attraverso un’idea di cinema che va oltre i generi codificati per la narrazione di questi argomenti, al di là del melodramma, del film-inchiesta, del cinema-verità.
Il regista confeziona un film “da camera” in cui il documentario si fonde con la fiaba e con la tragedia (quotidiana), girato per la maggior parte in interni, o in ogni caso all’interno di uno spazio ben definito, e in cui le poche uscite da questo spazio chiuso conservano sempre il punto di vista dall’interno; un espediente cinematografico che trasforma questa clausura nella metafora di un mondo che pesa sulle vite degli uomini e ne condiziona le scelte e i comportamenti. Di Costanzo riesce a girare un film sulla camorra tenendo il mondo sullo sfondo (il film si apre e si chiude su una panoramica “inusuale”, poco da cartolina, di Napoli, e concentra il resto del film in un unico ambiente), ma riversando sui protagonisti e sul pubblico la presenza di un sistema invasivo e ingombrante, indagandone i micro-effetti su personaggi che si trovano loro malgrado in questioni più grandi di loro.
Gli attori e la macchina da presa si aggirano nei meandri della struttura diroccata, attraverso un giardino ormai ricoperto d’erbacce, dentro sotterranei allagati, sul tetto della struttura (il tutto splendidamente fotografato da Luca Bigazzi), e questo “viaggio” in un mondo piccolo è motivo d’incontro tra i due protagonisti, che superano gradualmente le diffidenze iniziali, fino ad aprirsi con sincerità l’uno nei confronti dell’altra. L’esperienza di documentarista del regista viene impiegata in maniera audace e non scontata, indagando i personaggi, i loro discorsi (in un dialetto davvero funzionale e allo stesso tempo realista ed espressionista), i loro movimenti in uno scenario desolato e diroccato (lo scheletro di quello che fu l’ospedale psichiatrico “Leonardo Bianchi” di Napoli); questa esperienza si fonde col racconto di finzione, in una messa in scena che sapientemente evita il documento nudo e crudo, evita il sermone laico, evita la retorica manichea, e lo fa filtrando e interpretando la realtà attraverso una storia sospesa, in cui la tragedia (sia quella reale e sociale che quella narrativa) emerge dall’attesa di un evento destinato a cancellare quel piccolo mondo generatosi all’interno della prigione.
L’attesa, dunque, è il punto centrale della storia, i due personaggi si studiano, stabiliscono un contatto, vagano ed esplorano la struttura che in fondo li tiene prigionieri entrambi, detenuta e carceriere, ne indagano le rovine e lo trasformano in un microcosmo autosufficiente in cui è possibile anche la dimensione del sogno, un sogno che però è sempre destinato a scontrarsi con una realtà tanto dura quanto inevitabile. Nel suo folgorante istante di vita quotidiana, seppur in un contesto particolare, il film di Di Costanzo aggira sia le derive utopiche di un certo cinema civile che pretende di dare risposte assolute ai problemi (che pure sono affrontati in modo assai diretto), sia la spettacolarizzazione del crimine (non c’è sangue, non ci sono sparatorie, ma la violenza è tutt’altro che impalpabile), riuscendo a raccontare la tragicità di una situazione attraverso una storia che parte dall’interno di un sistema e che al suo interno trova una soluzione, che però non è né definitiva né soprattutto consolatoria. Ed è attraverso questa situazione di stallo che L’intervallo riesce a trovare una forza assai maggiore rispetto ad altri prodotti del genere, raccontando un microcosmo che è socialmente, ma anche esteticamente specchio di qualcosa di assai più grande e terribile.
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