Commedia all’italiana e cupo realismo Mario Monicelli
Per Mario Monicelli (1915-2010)
La vera grandezza del cinema italiano degli anni della cosiddetta “commedia all’italiana” risiede nel fatto che il cinema di quegli anni viaggiava libero e privo di qualsiasi paletto identificativo. La stessa definizione “commedia all’italiana” è un contenitore vasto, variegato e multiforme, che racchiude esperienze differenti, poetiche anche opposte tra loro e autori che hanno percorso strade assai diverse e molto spesso uniche. La critica ci mise un po’ a capire che quelle commedie erano molto più che un innocuo divertimento per famiglie, a rendersi conto che quei film raccontavano l’Italia, i suoi vizi e le sue virtù con una serie di stereotipi e meccanismi narrativi propri della grande tradizione della cultura popolare (non vorrei scomodare Gramsci, ma forse sarebbe il caso di farlo), di quella cultura che, fondendo alto e basso, maschera e personaggio, cerebrale e corporale, riusciva ad essere davvero rappresentativa di un modo d’essere complessivamente indagato. Volendo liquidare il discorso in breve potremo dire che la critica ci mise un po’ a capire perché la grande tara della critica italiana (di quei tempi, ma forse anche di oggi) è stata la sua perpetua incomprensione per la commedia, per il “basso” (anche basso corporeo: e per la sua rivalutazione avremmo dovuto attendere gli scritti di Gianni Celati o i saggi sul carnevale di Bachtin). La grandezza del cinema di quegli anni era il suo essere naturalmente (cioè spontaneamente, senza il minimo artificio) e allo stesso tempo d’autore e popolare, senza che queste due componenti (importanti esattamente allo stesso modo) prendessero l’una il sopravvento sull’altra.
Un cinema nuovo, fatto di registi, autori, mestieranti, “artigiani” come dicono in molti (alcuni in tono spregiativo, altri recuperando giustamente l’alto valore dell’artigianato, dell’arte “minore” come arte tout court). Non una scuola – il cinema italiano difficilmente si racchiude in scuole (alla fin fine neanche il neorealismo lo è stata) – ma un gruppo di persone, un gruppo di amici che insieme eppure autonomamente hanno scritto una delle pagine più belle – e più alte – del cinema italiano. Se dovessimo sintetizzare tutto questo percorso cinematografico nell’opera di un solo autore la scelta cadrebbe, e cade, inevitabilmente su Mario Monicelli. Se dovessimo riassumere in poche parole l’essenza stretta del cinema di Monicelli, e forse della commedia all’italiana, potremmo dire che si tratta di storie in cui un gruppo di persone tenta un’impresa assai più grande di quello che le proprie possibilità permettono loro di fare. Un esercito di poveri (non solo economicamente parlando) che tentano l’impresa, ma questa impresa è inevitabilmente più grande di loro, il muro della realtà è più grande del previsto e scalarlo non è mai facile, e presto arriva la delusione della caduta.
E già questo basta per capire come dietro quella faccia di commedia si nasconda una assai più pesante tragedia: il dramma della vita, i risvolti grotteschi, e forse guitti, di un’esistenza votata alla sconfitta. Il comico scaturisce dalla tragedia, in una coincidenza degli opposti che forse è l’essenza stessa del realismo. Ed è questo il senso che sta dietro a molti capolavori di Monicelli. Basta fare una rapida carrellata, il tema è costante: il gruppo di ladri scalcinati di “I soliti ignoti”, che tenta il colpo della vita ma sbaglia la parete da bucare e invece della cassaforte del monte di pietà si ritrova a rubare pasta e fagioli (mai espediente comico ha racchiuso in sé tanta tragedia); i due soldati de “La Grande Guerra”, che s’aggirano codardi nei meandri d’una storia infinitamente più grande e tragica di loro; il gruppo di operai nella Torino dei primi del Novecento, che sognano il riscatto sociale ma si perdono tra intellettuali sterili e disorganizzazione diffusa; il cavaliere Brancaleone – uno dei più grandi personaggi del cinema italiano che fonde la commedia moderna con uno spirito picaresco figlio dell’epica comica del Rinascimento – che s’inventa una nobiltà (e una lingua) che non ha mai avuto. Ma questi sono soltanto alcuni esempi, la lista potrebbe essere assai più lunga (anche tutti i film con Totò, maschera tragicomica della modernità, rientrano a pieno in questa classificazione).
Insomma, dietro la commedia s’annida una visione della vita (e una filosofia, potremmo dire) ammantata da un cupo realismo (nessuno s’azzardi al chiamarlo pessimismo), una visione del mondo in cui il povero, lo sfortunato, il popolo, hanno davvero poche speranze di farcela, perché i rapporti di forza che entrano in gioco sono schiaccianti per chi è più debole, è inevitabile; e nonostante s’inneschino meccanismi comici e divertenti la lezione di fondo è assai amara. “La speranza è una trappola, è una cosa infame inventata da chi comanda” disse una volta il regista in un’intervista, e la frase può davvero essere presa a commento generale per gran parte del proprio cinema. La risposta allora è la risata, lo scherzo, che diventa quasi un esorcismo al dramma (“Amici miei” – ultima grande commedia all’italiana – ne è l’esempio massimo: la zingarata totale, la supercazzola che tenta di spaventare, invano, la morte). E la grandezza ultima di Monicelli sta proprio nell’esser riuscito a raccontare queste situazioni, queste persone (il suo realismo è icasticamente rispondente alle aspettative del pubblico, fatto per riconoscersi nei personaggi), all’interno di un cinema popolare, un cinema che non s’interroga sui grandi temi scadendo nell’intellettualistico o nel (para-)filosofico, ma rimanendo all’interno del “genere”. Eppure nei suoi film il profondo (e il tragico) viene fuori, in maniera quasi spontanea, e può anche far ridere.
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