Gebo Et L’ombre Manoel de Oliveira
Manoel De Oliveira, centoquattro anni a dicembre, torna alla Mostra del Cinema di Venezia con un nuovo film, fuori concorso, “Gebo et l’ombre”, adattamento di una pièce teatrale di Raul Brandão del 1923. In uno squallido appartamento vive una povera famiglia: Gebo, contabile in una importante banca, che lavora a contatto con i soldi ma non è riuscito mai ad arricchirsi (forse per onestà, forse per mancanza di intraprendenza), Doroteia, la moglie, e Sofia la nuora, trascinano le loro vite nella miseria e in una immobilità fondata su abitudini e routine (una vita fatta di lavoro, della visita di qualche amico, ma soprattutto di rimpianti). Sul nucleo familiare pesa l’ombra di un’assenza, quella del figlio João, lontano da casa da anni. Solo Gebo e Sofia conoscono la dolorosa verità, che è uno dei motivi che sta disgregando la famiglia, e cioè che João s’è dato alla macchia per problemi con la giustizia; la madre invece, cui gli altri membri della famiglia nascondono il vero motivo dell’assenza, aspetta con ansia il ritorno del figlio, che per lei è un ambizioso uomo di mondo cui la vita familiare sta troppo stretta.
Sarà proprio il ritorno del figlio a far crollare quel labile equilibrio che sosteneva, ormai da anni, la famiglia. De Oliveira porta il teatro al cinema, allestendo una messa in scena minimale (ad eccezione della prima scena, tutta l’azione si svolge di fatto in una stanza), in cui l’immobilità della macchina da presa e l’utilizzo di lunghi piani-sequenza, fusi in un montaggio essenziale che scandisce più che altro i cambi di scena, sottolineano l’immobilità di una vita familiare fondata, beckettianamente, sull’attesa. Ma è un’attesa da una doppia faccia: da un lato la speranza di una madre cui è stata nascosta la verità, dall’altra quella di un padre e di una moglie che vivono il possibile ritorno con malcelata ansia e timore, e che trascinano la loro quotidianità perpetrando una menzogna messa in atto a fin di bene. I personaggi si muovono in uno spazio limitato, fotografato a tinte fosche e fredde, in cui gli unici sprazzi di luce sono dati, pittoricamente, da un lume ad olio che rischiara con un filo di luce i volti dei personaggi, come in un quadro di Georges de La Tour. La macchina da presa inquadra molto spesso i personaggi in maniera frontale, come se lo spettatore si trovasse sulla soglia della casa (o nella platea di un teatro); preso per mano dal regista, pare essere invitato ad entrare nella stanza, sul palcoscenico.
E i personaggi rivolgono spesso lo sguardo davanti a loro, verso il pubblico appunto, fino alla scena finale in cui il protagonista, scelta la via del sacrificio, sembra arrendersi al pubblico stesso, e si alza da tavola come per raggiungerlo, come ad uscire dal quadro, dal teatro delle ombre in cui si trovava. Ma il film di De Oliveira è soprattutto un film sul denaro (e sulla povertà): Gebo è un contabile che lavora per una importante banca, per lui il denaro è solo qualcosa da contare, sono numeri da annotare su un registro, non equivale alla ricchezza; João è un ladro, pronto a rubare anche in casa sua pur di non essere più povero. Pur essendo tratto da un’opera degli inizi del secolo scorso (e ambientata nel XIX secolo) De Oliveira rende attuale una storia che sembra fotografare il mondo contemporaneo, e lo fa con una lucidità da vecchio saggio (ma l’età non c’entra), mettendo in scena una vicenda la cui amara e disperata chiave di lettura è una delle più consapevoli riflessioni morali sui nostri tempi portate di recente sul grande schermo (e verrebbe da chiamarlo pessimismo, ma a guardar bene si tratta solo di disincantato realismo).
Un film sul denaro, dunque, ma anche un film sugli onesti che pagano ingiustamente e sui disonesti che rubano; ma la sua grandezza sta nel non essere mai manicheo: gli onesti hanno un’ombra d’ambiguità, d’immobilismo, che non fa di loro dei personaggi positivi, e i disonesti hanno una sorta di spirito vitale e ribelle forse anche più grande di loro stessi, ma destinato anch’esso a non fornire una qualsiasi forma di riscatto. Il vero problema è il denaro, che, bressonianamente, è la causa del male assoluto, che rende pavidi e avidi allo stesso tempo. E così, come ne “L’Argent” di Bresson (che, insieme a quello di Beckett, è l’altro nome che aleggia sul film), è il denaro che genera il danno. In quel film era una banconota in perenne movimento a rovinare la vita dei personaggi, in “Gebo et l’ombre” ciò che rompe l’equilibrio, già labile di per sé, è il denaro altrui, il denaro delle banche (e dunque il denaro aleatorio dell’epoca della finanza), il denaro che i poveri possono solo contare e le ombre possono solo (cercare di) rubare.
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