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26 Maggio 2012

COSMOPOLIS David Cronenberg

2012 - Francia/Canada/Portogallo/Italia

cosmopolis-locandina-itaEric Packer, giovanissimo squalo della finanza, decide di andare a tagliarsi i capelli dal vecchio barbiere di suo padre, in un giorno in cui New York sembra impazzita: la visita del presidente degli Stati Uniti e il funerale di una celebrità hanno paralizzato il traffico, le sue guardie del corpo continuano a ricevere segnalazioni relative a innumerevoli pericoli che potrebbero incorrere durante il tragitto, uno dei quali è una seria minaccia nei confronti del giovane miliardario, un codice rosso, che consiglierebbe di trovare una soluzione alternativa. Ma Eric decide comunque di attraversare la città per andare a compiere il “rito” del taglio dei capelli nel suo vecchio quartiere, dove è stato bambino, dove qualcuno lo conosce ancora come persona e non come “capitale umano”. La limousine inizia il suo viaggio, e a passo d’uomo attraversa una città sconvolta da una rivolta in corso, paralizzata e sull’orlo del collasso. Durante il tragitto Eric farà molti incontri: donne, colleghi, medici, la sua giovane moglie, con i quali affronterà non solo parte del tragitto, ma assisterà anche al suo probabile tracollo finanziario, dovuto ad un investimento sbagliato. Tutto in attesa che la minaccia che incombe su di lui diventi palese e possa essere affrontata.

 

“Cosmopolis”, ultimo film di David Cronenberg, tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo è innanzitutto una grande metafora. Il film, infatti, si inserisce in quel filone del cinema d’oggi che tenta (con linguaggi e stili diversi) di raccontare la crisi della contemporaneità, in cui l’apocalisse esistenziale e il dissesto politico ed economico convivono con una situazione postuma del contemporaneo, in cui il cinema riesce ad interpretare una realtà che è sempre più consapevole del proprio essere età di passaggio verso un futuro (che forse è già presente) dai contorni ancora non precisamente chiari. Ma il film di Cronenberg va oltre: il regista filtra il romanzo di De Lillo attraverso la propria visione (e visionarietà) rendendolo non solo proprio ma anche in un certo senso autonomo dall’opera letterariacosmopoliscronenberg (pur conservandone pressoché tutti i dialoghi), mettendo in scena un viaggio metaforico, l’ultima (e postuma) possibilità di un Ulisse (o meglio di uno Ulysses) contemporaneo di ricongiungersi con le proprie origini (di riappropriarsi della propria realtà), attraverso un percorso filosofico che smonta e disseziona il reale stesso; un viaggio fuori tempo massimo di una capsula sigillata attraverso la fine di un mondo, o meglio attraverso la fine di una realtà.

 

Più che un film apocalittico, infatti, Cosmopolis  è una lunga riflessione sulla morte avvenuta della realtà. Baudrillard aveva parlato della morte del reale e dell’avvento dell’era dell’iper-reale. Questo film fa un passo in avanti rispetto a questa visione, e profeticamente riesce a descrivere la condizione contemporanea che ormai scorre al di là dell’epoca che molti ancora credono di vivere: l’iper-reale ha lasciato ormai il posto al totalmente aleatorio, all’incorporeo, all’immateriale, ad un nuovo tipo, insomma, di virtualità che non è più quella promessa, e poi realizzata, dall’era dell’informatica. E se, all’interno della limousine la cosmpolis1realtà viene filtrata attraverso gli schermi che riproducono il mondo esterno, non si tratta più di una visione post-moderna della realtà (ancora l’iper-reale di Baudrillard, ma soprattutto “Videodrome” di cui questo film è al tempo stesso il seguito e il superamento), quanto piuttosto di un’ultima rappresentazione della dissolvenza di una realtà (così come l’abbiamo intesa finora) che ormai langue e si prepara ad esalare un ultimo, stentato, respiro. E il mondo della finanza altro non è che lo specchio di questa realtà. Parafrasando Marx: ‘uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro del capitalismo’, il mondo moderno al suo stato ultimo, quello di fantasma che ha abbandonato totalmente il corpo, ridotto a spettro di se stesso.

 

Un mondo in mano a giovani che gestiscono i resti del capitalismo erodendone le ultime briciole di concretezza (e non si può non citare “The social network”  di David Fincher, che, in maniera totalmente antitetica, trattava gli stessi argomenti, e con minor forza e lucidità), la cui condizione di gioventù riesce a sopravvivere (a stento) solo attraverso il cibo ed il sesso, e anche quando s’incarna nella rivolta (la limousine attaccata da un gruppo di manifestanti che non possono non ricordare il movimento Occupy Wall Street) non fa altro che rappresentare una faccia diversa di una stessa crisi, la crisi di quel capitalismo che per costituzione propria è destinato ad autogenerare la sua fine. Ed è una società che si nutre di complotti, che per continuare a rigenerarsi ha bisogno della minaccia costante (Frederic Jameson e Umberto Eco, in tempi non sospetti, hanno ampiamente chiarito quanto la febbre del complotto sia una costante della contemporaneità), che ha bisogno di trovare sempre un ostacolo sulla propria strada per poter giustificare la propria presenza.

 

cosmopolisbinocheC’è una sequenza chiave, in cui questi temi entrano prepotentemente nel film, ed è il dialogo tra il protagonista e la sua consulente teorica, momento che diventa necessariamente la “sequenza teorica” di tutto il film, la chiave di lettura di tutta la vicenda: ci ribelliamo contro il capitalismo perché il nostro idealismo non può accettare che l’avvenire non abbia un lieto fine, che le “magnifiche sorti e progressive” potrebbero non arrivare mai. Nel film di Cronenberg un altro mondo non è possibile, perché il capitalismo stesso ha generato la forza che lo porterà alla fine, ha auto-innescato la catastrofe, attraverso un meccanismo di creazione che, sin dall’inizio, prevedeva anche la distruzione. E siccome il capitalismo s’identifica con la realtà, la fine del capitalismo non può che coincidere con la fine della realtà stessa. All’interno di questa temperie si muove lentamente, con dei tempi dilatatissimi, il protagonista (un Robert Pattinson davvero in parte, checché ne dicano i cinefili snob che hanno storto il naso fin da quando la sua presenza nel film è stata annunciata), un personaggio privo di qualsiasi caratteristica esteriore (se non un appetito, alimentare e sessuale, insaziabile: l’unica cosa che gli ricorda di essere “giovane”) perfetta incarnazione del mondo che rappresenta.

 

La fine della gioia e dell’ironia del neocapitalismo postmoderno passa tutta attraverso la sua freddezza (la sequenza della torta in faccia è una chiara metafora di questa situazione). Cronenberg rappresenta uno scontro: due visioni del mondo opposte ma che hanno convissuto per qualche tempo (incarnate da Benno Levin/Paul Giamatti e da Packer/Pattinson), la prima, quella postmoderna (che ormai vive di rovine, o forse lo ha sempre fatto), che filtrava la Realtà attraverso la comunicazione e ne offriva un simulacro che ancora presupponeva la sua presenza creando una certa simmetria (termine chiave Cosmopolis-uscita-italia1-300x240nel film, insieme al suo contrario) tra i due poli; l’altra quella che parrebbe essere vincente (ma per quanto ancora?) che filtra la comunicazione stessa attraverso una comunicazione di secondo grado, in uno spettacolo elevato al quadrato, che è il trionfo dell’immateriale e superamento dello stesso virtuale. Eric Packer è la personificazione dell’ aleatorietà del (post)-capitalismo dell’era della finanza in crisi (e non a caso è quasi ossessionato da un artista come Mark Rothko, il più aleatorio tra i pittori moderni, e dalla musica di Erik Satie), e rappresenta una visione del mondo che non è più intervento sulla realtà (iper-realismo) ma sua disgregazione per avvenuto superamento delle sue funzioni. Il suo continuo parlare crea un continuum dialogico in cui le parole modellano la regia, scandiscono il ritmo delle immagini.

 

Cronenberg riesce a creare prospettive sempre nuove all’interno di uno spazio chiuso, serrando i personaggi in un involucro sigillato in cui la realtà, o quel che ne resta, riesce a trasparire se non attraverso uno schermo (schermo televisivo, ma anche schermatura insonorizzata) in cui quello che arriva dall’esterno e ciò che rimane fuori (e di fatto scompare) ha un valore conoscitivo importantissimo. Cronenberg oppone al campo/controcampo della messa in scena dialogica un contrappunto sonoro in cui molto cosmopoliscannesspesso i silenzi del mondo (l’assenza dell’esterno) contano di più dei suoni, e in cui la visione ostruita (il suo annullamento) svela più di quanto tenta di nascondere attraverso i vetri scuri della limousine. La contrapposizione tra la continuità dialogica e il silenzio della realtà descrive, attraverso le immagini, una situazione desolata: i ricchi hanno perso, i poveri hanno perso, la realtà è in decomposizione. L’età dell’oro è finita, così come quella successiva del denaro. L’epoca della finanza virtuale è sull’orlo del baratro: che non ci aspetti forse, come suggerisce un personaggio del film (che cita Zbigniew Herbert), l’epoca in cui il topo si trasformerà in unità monetaria?  Davvero Cronenberg ha realizzato un film che – oltre ad essere uno dei suoi migliori lavori almeno da un decennio a oggi –  è una precisa istantanea della nostra epoca, uno spazio chiuso che s’allarga a spirale fino a comprendere il tutto (Cosmopolis: Cosmo/Polis, Città/Universo). 


Luca Verrelli

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