American Hustle David O. Russell
"American Hustle" è un meccanismo ben oliato, che il cinema americano conosce bene, fin troppo. Una sceneggiatura in cui convivono una serie di stereotipi che in alcuni, se non in molti, casi hanno fatto grande il cinema d’oltreoceano. Fine anni Settanta: due truffatori (Christian Bale e Amy Adams) per evitare la galera sono costretti a collaborare con un agente dell’FBI per smascherare i pesci grossi corrotti o corruttibili: politici, banchieri, mafiosi e chi più ne ha più ne metta. Inutile dire che i fatti precipiteranno, le situazioni diventeranno sempre più grottesche e la caccia all’uomo dell’FBI s’ingigantirà fino al parossismo.
David O. Russell sembra voler costruire il proprio "Quei Bravi Ragazzi", con un tocco di "Casinò", riletto strizzando l’occhio a Tarantino (chi è ancora convinto che la storia del cinema sia iniziata con "Le Iene" gongolerà di gioia nel vedere un trunk shot che invece di rivelare un cadavere o un arsenale nel cofano di una macchina, ci mostra, con ironia, un forno a microonde), ma gli manca la spregiudicatezza autoriale di Scorsese, l’acrobazia nel filmare situazioni di tensione come un unico flusso di coscienza filmico e sonoro (Casinò), di registrare in un tutt’uno la tragedia e il grottesco, le ossessioni e le esplosioni di violenza (Goodfellas). La regia di Russell rimane al suo posto, fa sì il suo dovere, ma scompare sopraffatta dagli ambienti (ottimamente ricostruiti) e dalla gigioneria degli attori; ogni tanto tenta un guizzo (che però si rivela essere al massimo una timida anche se rapida carrellata in avanti) ma poi, troppo composta torna in secondo piano, per lasciare di nuovo spazio al resto.
Il lavoro sugli attori è minuzioso, ma tutta quella caratterizzazione fa sorgere il sospetto che più ad arricchire la pellicola sia stata elaborata per coprire qualche mancanza o più semplicemente per offrire un ennesimo tocco scorsesiano al film. Ecco dunque Chrstian Bale che s’imbruttisce, ingrassa, ostenta un riporto d’ingegneresca complessità (leggi De Niro in "Toro Scatenato"), Jeremy Renner sembra il sosia di Joe Pesci; le due protagoniste femminili fanno a gara a chi è più sexy (ed è una dura lotta), con una nevrotica Jennifer Lawrence che guarda (da lontano) la Sharon Stone di "Casinò". E poi voci fuori campo a commentare le situazioni, intrallazzi tra politica, mafia a gioco d’azzardo, colonna sonora d’epoca con il meglio (e il peggio) della musica dei Seventies (ma dove è finito il valore diegetico della musica?), e ciliegina sulla torta Robert De Niro chiamato ad interpretare un vecchio boss della malavita (e c’è anche un’aggressione a colpi di telefono, se per caso tutto il resto non vi fosse bastato). Ma ben presto, troppo presto, la vicenda si trasforma in farsa, le potenzialità tragiche s’affievoliscono repentinamente, la sceneggiatura s’aggroviglia su se stessa in un finale tanto consolatorio quanto scialbo. E anche il pur interessante gioco verità/finzione si risolve nel più semplice dei modi (eppure quell’insistere sul racconto spezzato, sul finale previsto/imprevedibile faceva davvero ben sperare). Nulla che faccia balzare estasiati dalla poltrona del cinema, insomma; il film scorre e si lascia guardare, e a tratti è anche divertente (la sequenza iniziale con Bale che si “costruisce” l’acconciatura è spassosa). Ma non basta certo ad elevare il film da quell’aurea mediocritas che non scontenta ma che neanche esalta.
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