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17 Settembre 2018

ROMA Alfonso Cuarón

30 Agosto 2018 - Uscita Netflix e Sale: 14 dicembre 2018 - Messico

Leone d’Oro alla 75.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 

 

Regia, sceneggiatura e fotografia: Alfonso Cuarón - Montaggio: Alfonso Cuarón e Adam Gough - Cast:  Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Nancy Garcia, Jorge Antonio Guerrero, Verónica Garcia, Fernando Grediaga, Marco Graf, Daniela Demesa, Carlos Peralta, Diego Cortina Autrey - Genere: Drammatico - Produttori: Gabriela Rodríguez, Alfonso Cuarón, Nicolás Celis, Esperanto Filmoj, Participant Media - Distribuzione: Netflix - Durata: 135 minuti

 

roma-alfonso-cuaron-poster-netflixNessuna sorpresa con il Leone d’Oro assegnato a “Roma”, l’ultimo film di Alfonso Cuarón, già candidato dal Messico per l’Oscar al miglior film in lingua straniera. Per un’edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che punta a fare da trampolino per gli Oscar si è trattato di una scelta comoda, considerando che Cuarón vanta diverse nomination e ben sette Oscar per il suo film precedente, “Gravity”, del 2016, tra cui anche regia e montaggio a lui assegnati. Scelta comoda, anche perché “Roma” si presenta già come un classico, un’opera di grande perfezione e controllo formale, che non può essere contestata (se non per la polemica sul fatto che sia prodotta da Netflix, cosa che nulla toglie alla qualità del film), ma che al contempo non vuole azzardare nulla, e con esso nulla azzarda il Leone nell’essergli assegnato. Un film che già prima di essere proiettato era tra quelli candidati al massimo riconoscimento del festival di Venezia, e che dopo la sua presentazione, il 30 settembre a festival appena iniziato, è rimasto il titolo più quotato, sia per la critica che per il pubblico. Qualcuno, prima del festival, già diceva che il Leone sarebbe stato conteso tra due film messicani, ma l’altro film in concorso, “Nuestro Tiempo” di Carlos Reygadas, è stato invece del tutto ignorato. Diversamente da “Roma” avrebbe rappresentato un premio di tendenza nell’andare controtendenza, a indicare strade future per il cinema, come spesso è stato nella tradizione di Venezia. Da tempo queste due impostazioni si alternano, nella necessità di dare al festival un posto significativo nel panorama mondiale, senza rinchiudersi in un ruolo elitario. Il film di Cuarón aveva anche il vantaggio di essere un film molto intimo e autoriale, diverso dagli altri film del regista.

 

Ritorno in Messico con semplicità: un inizio esemplare

Innanzitutto “Roma” (che non è la nostra capitale, bensì il nome di un quartiere di Città del Messico) segna per Cuarón un ritorno in Messico, la sua patria, dopo anni di hollywoodiane produzioni blockbuster (da “Harry Potter” alla già citata fantascienza, e ancora serie tv come “Believe” per il colosso televisivo statunitense NBC), con un film che ROMA7-699x407si impone subito come opera molto personale, per l’appunto autoriale. Tanto più se si considera la semplicità del suo linguaggio, che rimanda non solo nella scelta di un morbido bianco e nero (anche nell’uso della macchina da presa e delle luci) alla stagione “classica” del cinema nei primi due decenni del sonoro, gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Ne è testimonianza la scena di apertura, da manuale. Con una lineare successione di panoramiche con macchina da presa su cavalletto, un piano della casa dopo l’altro, ci descrive lo spazio scenico del film. Una casa con un cortile interno, cancello sulla strada, cucine e piano terra che vi affacciano, un primo piano per la zona notte, uno rialzato per la servitù con accesso infine anche al terrazzo dove fare lavanderia. Il tutto ci viene mostrato seguendo il risveglio mattutino, i movimenti di un cane e poi con cura quelli di Cleo, una delle due domestiche, per poi unirsi all’altra domestica che resterà sullo sfondo nelle vicende, Adela, per infine presentarci tutta la famiglia, i quattro bambini e la padrona di casa, Sofia. Il padrone invece è fuori, ma arriverà presto. Questa semplicità fa il paio con un assetto produttivo tyaviradove troviamo Alfonso Cuarón non solo alla regia, bensì alla fotografia e al montaggio, e un cast quasi tutto composto da attori esordienti, tranne la bravissima Marina de Tavira (Sofia, la padrona di casa, nella foto), un’attrice messicana con un buon numero di film alle spalle, tutti in Messico. Una dimensione autoriale del farsi il film tutto con le proprie mani che lo riporta alle sue prime esperienze messicane, quando alla fotografia godeva comunque della collaborazione di Emmanuel Lubezki che con lui ha firmato sei film e che (giunti insieme a Hollywood) ha lavorato anche con Terrence Malick (“The Tree of Life” di cui al festival è stata presentata la versione estesa) e con l’altra stella messicana Alejandro González Iñárritu (“The Revenant” e “Birdman”). Una scelta probabilmente di grande intimità per un film che vuole ricostruire le atmosfere casalinghe della propria infanzia. Una scelta che fa il paio con l’altro film messicano in concorso di cui abbiamo accennato, “Nuestro Tiempo”, anche questo girato da regista e moglie, come attori protagonisti, lei anche montatrice, nella propria casa, con i propri amici e i propri figli protagonisti. E con durate dilatate, “Roma” oltre le due ore e l’altro vicino alle tre, per film che hanno il dichiarato intento di farci entrare in un mondo, in una casa e nella sua routine quotidiana, prima di iniziare a raccontare di fatti e accadimenti che ne segneranno una svolta.

 

Il microcosmo di una casa serena

La casa è il soggetto centrale, un microcosmo dentro cui lentamente impariamo a leggere quanto avviene fuori da essa. Siamo a ridosso del campionato mondiale di calcio Mexico 70, l’anno prima l’uomo è sbarcato sulla luna e due anni prima, in Città del Messico, ci sono stati gli scontri sanguinosi tra polizia e studenti che hanno portato, in occasione delle Olimpiadi, alla strage del 2 ottobre nella Plaza de las Tres Culturas. Perché questo entri nel film dovremo aspettare di aver imparato a leggere ogni respiro di questa casa nella 31-roma.w700.h467sua città, nel suo quartiere innanzitutto, quello di nome Roma. Un quartiere borghese, ma solo apparentemente al riparo. La città viva e rumorosa la conosceremo con Cleo (la mixteca Yalitza Aparicio, nella foto), nei suoi giorni di libertà insieme ad Adela (Nancy Garcia, anche lei una non-attrice, foto giù a sinistra). Cleo che riordina la casa e l’attraversa di giorno e di notte, diventa il motore del film. Grazie a lei usciremo e conosceremo anche la città viva e rumorosa. Per lei la casa è un riparo troppo invogliante, una tomba. Come per il bambino più piccolo dei quattro nulla è più meraviglioso di quell’universo chiuso. Quando il bambino le propone di giocare sul terrazzo, tra i panni stesi, a fare il morto, Cleo accetta il gioco e si sdraia con lui. Entrambi trovano sia bello fare il morto. Il bambino e lei sono il punto di contatto più facile tra due universi che convivono in quella casa. La 55176casa della servitù che parla mixteco e quella dei padroni che parlano spagnolo. Queste due lingue segnano il film, insieme ai loro corpi così diversi, così le scale ripide e di ferro per giungere ai piccoli vani riservati a Cleo e Adela, sotto il terrazzo e gli ampi vani della casa colma di libri. Una casa che l’altro figlio, già più inquieto, si diverte a segnare ogni notte accendendo ogni luce in ogni angolo di casa, costringendo Cleo a questo rituale serale che ancora una volta segna uno spazio, lo apre e lo richiude. L’esigenza di Cleo di costruirsi qualcosa all’esterno la porta, ad accettare l’invito di Adela di conoscere un amico del suo fidanzato. Ne nascerà una storia parallela che aprirà il film a nuove evoluzioni. A rompere questi equilibri saranno infatti gli uomini.

 

Il macrocosmo del violento conflitto di classe

Nel rincorrere il suo uomo Cleo ci farà conoscere non solo la città, i suoi cinema, le sue strade affollate e le piccole pensioni, ma anche le grandi periferie dei latifondi. Con il suo 123ragazzo (Jorge Antonio Guerrero) entreremo in una dimensione politica inaspettata, che solo lentamente emergerà e ci condurrà al finale. Prima che questo avvenga vivremo con Cleo la sua storia d’amore e poi faremo fatica a credere alla violenza che ne emergerà. La divisione in classe diventerà paradossale con milizie armate e illegali, al soldo della repressione contro gli studenti e gli intellettuali borghesi. Un’esplosione di violenza che arriverà tardi e improvvisa a ricordarci quanto accadeva fuori da quel mondo chiuso, la casa, che ha subito nel frattempo solo due traumi: le vicissitudini di Cleo rimasta incinta e l’abbandono della casa da parte del suo padrone. Emerge così dal fondo l’altro personaggio femminile, Sofia, la padrona di casa. Lui, il gremarito (Fernando Grediaga, un attore esordiente, nella foto), marcherà la sua presenza varcando il cancello con l’auto. Un’auto che non sembra poterci entrare, costringendolo a lunghe e penose manovre per non rompere specchietto o graffiare una porta, perché in questa casa lui, il padrone, l’uomo, sembra starci a malapena e mal gradito. Anche il cane lascia sull’uscio le sue feci, sempre pestate dalle gomme dell’auto e che il padrone nemmeno sa evitare con le sue scarpe, al contrario di tutti gli altri. Un giorno il padrone andrà via, per un lungo viaggio all’estero. Il clima politico ci fa pensare a qualche difficoltà, ma si tratta solo di un meschino stratagemma. Prima Cleo, ora tocca a Sofia. I due universi stanno per toccarsi. A congiungerli emerge una figura matriarcale, nonna Teresa (Verónica Garcia, un altro esordio e come tutti egregiamente diretta), che si prenderà cura di tutti, di Cleo in particolare e della sua travagliata gravidanza, oltre che dei bambini da portare a scuola e accudire, mentre Sofia cerca una soluzione.

 

Il microcosmo aperto: un finale da capolavoro

Usciti di scena gli uomini, passata, violentissima, la tempesta politica, il microcosmo si ricostruisce, intorno a un rinnovato matriarcato, questa volta autosufficiente. Sofia prende coraggio e si cimenta in un nuovo lavoro, con l’ironia dei quattro figli increduli. Si compra un’auto che entri agevolmente nel portone e si getta alle spalle tutto il passato. Per farlo capire farà con l’altra auto, tanto odiata e fuori misura (tanto comici gli ingressi dell’auto nel cortile di casa, quanto quelli maldestri di Sofia, anche lei abbandonata) un viaggio fuori stagione sulla costa oceanica, lei, i bambini e Cleo. Avviene qui il miracolo, in una roma-alfonso-cuaron-trama-1catarsi drammatica con cui Alfonso Cuarón (nella foto) ci regala una sequenza magistrale, che non mancherà di essere ricordata nelle storie del cinema. Un lungo carrello lineare, avanti prima e indietro poi, dentro le onde del mare impetuose e sul bagnasciuga, con cui segna il climax del film. Cleo potrà sfogare tutto il suo dolore e quella nuova famiglia accoglierla come suo membro, in un abbraccio senza fine e senza ipocrisie. Il conflitto di classe non è risolto, ed è anche un conflitto etnico. Tornati a casa, ognuno avrà il suo ruolo, i mixtechi a servire e gli spagnoli a comandare. Cleo salirà le scomode e ripide scale di ferro per giungere alla sua misera stanza nell’ammezzato. Il conflitto è solo un dato di fatto, appartiene al mondo esterno e quelle donne si limitano a essere tra loro solidali. Il conflitto è un dato di fatto ma viene dall’altra metà del cielo, quel cielo dove come nell’inizio del film, passa un aereo, forse lo stesso aereo, a ricordarci che fuori da quella casa nulla cambia e il futuro deve ancora iniziare. Dentro, tra donne, ci si prepara a viverlo con umanità. 

 

Angelo Amoroso d’Aragona

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