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29 Aprile 2012 ,

HÜSKER DÜ Ad un passo dal paradiso (zen)

2012

Uragano su Minneapolis

Che bella storia quella degli Hüskers. Che grande, bella, fottuta storia. Un chitarrista con la faccia da bombolone alla crema di arachidi, un batterista coi capelli unti come quelli di un hippie, un bassista con dei baffi da camionista messicano che saltano in groppa ad un selvaggio Mustang che sputa vapore dalle narici e polvere da sotto gli zoccoli e finiscono per addomesticarlo senza sbalzare dalla sella, addolcendolo un po’ alla volta. Una storia cominciata a sputi in faccia e finita a sputi in faccia. Prima sul pubblico, poi tra di loro. All’ inizio è il caos, come è giusto che sia nell’ immediato dopo-punk: diciassette brani stipati in ventisei minuti. Le divisioni fatele voi, che io non riesco. Non quando sul piatto gira “Land Speed Record”, perlomeno. Gli Hüskers lo registrano nel Ferragosto del 1981 al 7th Street Entry della loro città. Niente gita sul lago, per gli Hüsker Dü. E neppure per i loro concittadini, perché quel quindici Agosto si abbatte su Minneapolis un violento uragano, quello fissato a caldo su questo disco. Land Speed Record sbriciola le orecchie con un frastuono madornale reso ancora più confuso dalla registrazione su due tracce, con gli strumenti e le voci infilate una sull’ altra.

 

Anfetamine, hardcore punk, ossigenazione del suono.

Chi ha la pazienza di scavare sotto le macerie però troverà una cosa fantastica come Tired of Doing Things con Grant Hart e Bob Mould che urlano all’ unisono con gli occhi spiritati per le troppe anfetamine o le MTC e Let’ s go die veloci come un giro della morte scritte e cantate da un Greg Norton ancora implume e arrabbiato quanto e forse più degli altri. Suonano veloci come un branco di cani che hanno perso il pasto, gli Hüskers di Land Speed Record. Suonano con la bava alla bocca. Suonano come la peggior band del pianeta. Come se dovessero morire domani. Come se fuori dal 7th Street Entry li attendesse la barca di Caronte. Noi siamo già a bordo. Tra il Giugno e il Luglio del 1982 gli Hüsker Dü provano a fare in studio quello che riesce loro benissimo dal vivo: muoversi nel caos più assoluto con in mano la bussola del punk e cercando di aggrapparsi all’ albero maestro della musica dei Sixties non appena il mare in bufera rischia di travolgerli e gettarli in pasto agli squali.

 

Suonano ancora velocissimi, gli Hüskers di "Everything falls apart"From the gut è lo schieramento del plotone, il present-arm del nuovo punk americano. Poi, una pioggia di proiettili hardcore degni di Minor Threat e Black Flag che solo chi, convinto che la stampa 45rpm sull’ etichetta del disco sia un errore tipografico, può cercare di arginare suonando il disco a velocità ridotta. Serve a poco, perché l’ impeto di Punch DrunkBricklayer Signals from above è ugualmente devastante. Come salire sul ring durante un incontro di pesi massimi e cercare di separare gli avversari, prendendosi le botte di entrambi. ‘Say we play too fast, the music ‘s not gonna last. Well, I think you ‘re wrong’ dicono a chiusura di disco. Ma mentono. E loro lo sanno bene.

 

Perchè si insinua, ancora esitante, la necessità di azionare una valvola di decompressione che possa ridefinire il canone stilistico della band, che possa assecondare il bisogno di caricare i muscoli di ossigeno e non solo di proteine. La scelta di inserire la cover di un classico del folk psichedelico come Sunshine Superman è sintomatica di questa necessità, poi sviluppata su alcuni dei momenti topici del disco come Everything Falls ApartGravity Target che tuttavia non riesce a marginare il bisogno adolescenziale di Mould di sporcare tutto con degli assolo ai limiti col metal. Gli Hüskers si mettono davanti ad una finestra con i vetri a specchio. Guardano fuori e, contemporaneamente, si osservano attraverso il vetro.  Forse proprio per questo cominciano a sputare sempre di meno.

 

Fatto definitivamente fuori Greg Norton dal ruolo di autore, Grant Hart e Bob Mould iniziano a definire quello che sarà lo stile Hüsker Dü con "Metal Circus". Ancora un mini, che dura addirittura meno di Land Speed Record ma che a differenza di quello contiene solo sette canzoni. E’ il primo risultato di quella “ossigenazione” del suono che era percepibile su Everything Falls Apart. Bob Mould affina il suo gusto per la distorsione compressa e “ipersonica” mentre a Grant Hart è affidato il compito di aprire le maglie della cotta di ferro che corazza il suono della band lasciando passare la luce di ballate pop memori della lezione dei Wipers di Greg Sage. It ‘s not funny anymore e la dolorosa Diane segnalano il suo ingresso nella storia dell’ indie-rock americano. La chiusura del disco, affidata agli squarci free-jazz di Out on a limb sono il preludio alla salita verso l’ Arcadia Zen.

 

Ad un passo dal paradiso (Zen)

Il cielo è grigio piombo. Minneapolis canta il suo blues. I lupi scendono a valle, disossando cadaveri. L’ hardcore muore qui, stritolato da un cerchio di metallo. L' Arcadia, quindi, si schiude: quarantacinque minuti di registrazione, ottanta minuti di lavoro totale per un disco che ne dura appena settanta. Ottanta minuti per tirar su il Quadrophenia del punk. Ottanta minuti che valgono una vita intera. Si può girare il mondo seduti sul proprio giradischi. Si può fare, perché io l’ ho fatto. E si può immaginare di prendere il mondo e lanciarlo come una palla da bowling. Se hai sul piatto “Zen Arcade” puoi fare tutto. Un disco che ti entra dentro lo stomaco e ti fa esplodere la carne, come se ti avessero sparato nel fegato un proiettile ad espansione. La devastante furia dell’ hardcore sciolta nell’ acido della psichedelia espansa degli anni Sessanta e il punk che, per la prima volta, sostituisce i vetri delle finestre con degli specchi, cominciando a guardarsi dentro. Con uno sguardo non meno lucido e spietato. Zen Arcade è lo snodo di tutto l’ alternative rock americano, Hüsker Dü compresi. Dopo la furia cieca dei primi lancinanti dischi e prima del pop rumoroso degli album della seconda metà degli anni Ottanta. E’ il giro di boa del decennio. Ed è una boa che ha il peso di una palla di cannone. Eppure tiene a galla, pure in questo mare in tempesta.

 

Un disco concettuale sul bisogno di trovare la propria identità sociale, culturale, affettiva e religiosa fuori dalle mura di casa. Un film. Col suo inizio folgorante (Something I learned today) e i suoi lunghi titoli di coda (Recourring dreams, ovvero la Tomorrow Never Knows dell’ età hardcore, NdLYS). Tra l’ uno e gli altri c’ è una bella fetta di vita. E una bella fetta di musica: dai Fugs di Hare Krisna agli MC5 di Turn on the news, dai Black Flag di I ‘ll never forget you ai Nobody ‘s children di Masochism World dai Germs di Indecision Time ai Byrds visti dai finestrini di un treno ad alta velocità di Chartered Trips. Ci sono i Ramones e i Dead Kennedys, i Beatles e la psichedelia, il folk e la musica sperimentale, i Sonic Youth e lo speed metal. E ci sono, ma ancora non lo sapevamo, i Pixies, i Nirvana e i Dinosaur Jr. I pezzi non sono numerati ma solo indicati "a blocchi”, per ogni facciata. Diventeranno ventitré titoli in colonna nella versione in cd. Non una track list, ma una sequenza di ventitre fotogrammi. Nessun singolo verrà pubblicato. La sua verginità non sarà intaccata. Zen Arcade è la pagoda dove il vecchio punk va a morire e si trasforma in materia che plasma il mondo, in unguento di vita e saggezza, in sindone di malessere.

 

Rumore e melodia

Lo stesso mese in cui il titanico Zen Arcade invade, cambiandolo per sempre, il mercato hardcore americano, gli Hüskers si chiudono negli studi Nicollet della loro città per registrare “New Day Rising”. E’ un disco che mesce nell’ eccentrica ricetta di rumore e melodia messa a punto sul disco precedente. Un disco dove la rabbia dell’ hardcore si è definitivamente stemperata nel dolore e nell’ introspezione e i ricordi si accumulano fino a soffocare ogni cosa. Il rumore però, quello non è scomparso. Si è ammassato formando cumuli di macerie che hanno seppellito l’ infanzia e l’ adolescenza. Cataste sotto cui sono sepolti i nostri sogni e i nostri eroi. Quelli che muoiono sempre, come dice Mould su Folklore. Anche quando sembrano carichi di vita, come gli Hüskers di New Day Rising, stanno già lentamente cominciando a marcire. Ma i tre di Minneapolis, nonostante il grosso seguito che hanno cominciato ad avere, si rifiutano di essere gli eroi di chicchessia.

 

Quello che portano sul palco e dentro ai loro dischi è una vicenda personale, personalissima. Che poi dentro quelle parole cantate a denti stretti da Mould e da Hart ci si rispecchi la disillusione di una intera generazione è un fatto sintomatico ma assolutamente non secondario della forte identificazione che la vecchia comunità indie e punk riusciva a celebrare con i propri idoli. Soprattutto con chi ha una radice popolare e operaia come loro. Gli Hüsker Dü sono in questo assolutamente credibili. Non hanno nessuna maschera, nessuna posa, nessuna divisa. E quando qualcuno li fotografa tutti assieme sono la cosa meno armoniosa che si possa guardare. Non sono una rock band ma tre clienti qualunque di una friggitoria qualunque di una qualunque città della provincia americana. Tre avventori che non hanno nulla da condividere e che con molta probabilità finiranno a scazzottarsi per strada dopo aver ingurgitato qualche hot-dog alla senape e aver tracannato qualche birra a buon mercato.

 

Grande, orgoglioso  indie pop-punk 

Eppure tutti assieme qualcosa riescono a dirla davvero, ancora una volta. Sotto una tempesta di chitarre e di urla c’ è un universo di immagini e di storie, di libri sugli ufo e di ragazze che vivono sulla collina del paradiso, di consigli su come scuoiare un gatto e di occhi che, stanchi di guardare uno specchio sempre più opaco, adesso fissano il muro. Parole che spesso girano vorticose come il gorgoglio di un lavabo sturato dalla soda caustica. Che tornano, ossessive, pressanti, maniacali ed incalzanti (New Day RisingPlans I makeHow to skin a cat), sotto una musica che è amore mascherato di odio. Più composto rispetto al fratello-gemello New Day Rising, “Flip your wig” esibisce il lato più accessibile della scrittura di Bob Mould e Grant Hart portando di filato gli Hüskers dalla barricadera SST tra le mani della Warner Bros. e aprendo di fatto la strada “major” alle band del circuito indipendente. 

 

Flip your wig è un trionfo di immediatezza pop, portata a livelli altissimi di contagio dal singolo Makes no sense at all, singolo dell’ anno per un fottio di riviste di settore e uno dei dieci più belli dell’ indie-rock di tutto il decennio: attacco al fulmicotone con il ritornello sputato in faccia come i Beatles di She loves you, strofa mozzafiato e rapida mitragliata di Grant Hart su un tamburo che è il muscolo cardiaco di tutto il punk rock degli anni Ottanta e si ricomincia da capo, come un veloce giro di go-kart, due volte di fila e poi ancora veloci, fino all’ inciso ripetuto come un urlo di gioia sputato al cielo. Niente ponti, niente assoli, niente fratture, niente variazioni. Puro pop appiccicato al cruscotto della miglior macchina punk del decennio, come una chewing gum sotto il banco di scuola: il nostro modo di fermare l’ adolescenza, di lasciare la traccia del suo passaggio veloce e sfrontato sull’ immobile mondo adulto.

 

Tutto Flip your wig vive di questa “epica da college” con la chitarra di Mould diventata un’ implacabile spira elettrica in grado di avvolgere di distorsione l’ immediatezza pop delle loro canzoni (Hate paper dollFlip your wigDivide and ConquerPrivate PlaneGamesMakes non sense at all, l’ esacerbata Every Everything e la delicata Green Eyes di Hart). Il tono del disco di incupisce e si sbrindella nei due strumentali che chiudono l’ album: The Wit and The Wisdom con la chitarra di Bob che si contorce come lamiera sull’ asfalto e la più breve Don ‘t know yet che sembra una B-side dei Cure d’ inizio carriera. Avere quindici anni ed essere sotto la pressa elettrica degli Hüsker Dü, ecco cosa erano per me gli anni Ottanta.

 

Approdo ad una major (i primi): nostalgia hardcore e trionfo di una formula

Reduci da un album-monumento come Zen Arcade e con una storia indipendente di tutto rispetto (per la SST di Greg Ginn, un emblema dell' indie rock americano, NdLYS) il trio di Minneapolis approdava a una major, battendo sul tempo i Sonic Youth e cinque anni prima dei Nirvana. E lo faceva con un disco bellissimo, il migliore della sua carriera, quello che meglio sapeva dosare le doti del terzetto e che non si sarebbe più replicato: il doppio album che avrebbe chiuso la loro carriera soltanto un anno dopo, pur con momenti altissimi, mostrava Grant Hart e Bob Mould distanti, separati, incapaci di infilarsi l' uno dentro le canzoni dell' altro. Il risultato sarebbe stato un disco schizofrenico, sfocato, sgranato. Ma qui dentro, signori, qui dentro sta tutto lo spirito degli Hüsker Dü, la loro capacità di veicolare il rumore, di piegarlo al gioco melodico, di ricattarlo.

 

Lo risento oggi “Candy Apple Grey” e mi commuove ancora come la prima volta. L’ apertura affidata a Crystal è un omaggio al loro passato hardcore, con quel magma di chitarre che ribolle pur sfruttando tecniche completamente avulse da quelle dell' hardcore più canonico, accordi lasciati aperti, come in un disco dei Byrds, a convivere col loro spettro: il feedback. Un uragano che ti inghiotte prima di trasportarti lungo altri 9 brani attraverso tutti i paesaggi tipici della geografia degli Hüskers, e che qui finalmente brillano di una coesione che altrove mai avevano trovato, neppure in quella Bibbia che era stata Zen Arcade, due anni prima. Non esiste una crepa che possa spingere qualcuno a scardinare il mostro Hüsker Dü qui dentro a parte forse il leggero torpore che avvolge No promise have I made e l’ organo tronfio di Sorry Somehow. Da brivido.

 

Una bottega di storie e canzoni: l'inconciliabilità creativa di due anime scollate, Bob Mould e Grant Hart, produce capolavori

Il rock alternativo americano degli anni Ottanta è un tavolo che si regge su quattro gambe: Sonic Youth, Pixies, R.E.M. e Hüsker Dü. Provate a tagliarne uno e vi crollerà addosso buona parte di quello che fu l’ indie-rock di venti anni fa. Warehouse aveva le colonne anche sulla copertina. E ho detto tutto. In quattro anni e cinque dischi (dei quali due doppi, NdLYS) gli Hüsker Dü hanno cambiato la faccia del punk. Lo hanno riempito di schiuma da barba, lo hanno rasato e quando alla fine lo hanno messo davanti allo specchio non era più lui. La rivoluzione comincia a casa. Preferibilmente davanti allo specchio del bagno. Proprio così. Ma quando esce “Warehouse: songs and stories”, la rivoluzione degli Hüsker Dü è finita. E loro ne sono usciti comunque vincitori. Hanno ridefinito le coordinate del suono punk e sono stati i primi figli di puttana della scena indipendente a varcare la porta di una major, venire accolti dalla receptionist in calze a 8 den e dal pappone di turno che ti offre un sigaro cubano. Anzi, tre. Qualcuno li odierà per questo. Qualcuno ci scriverà pure un’ orribile canzone (Middle dei Fifteen, NdLYS) che tutta intera non vale un solo accordo della chitarra di Mould. Per la Warner incidono due dischi che sono il preludio alla fine. E anche alla tragedia: le tensioni tra Bob Mould e Grant Hart sono diventate insanabili, acuite dall’ uso smoderato di eroina e del metadone che Grant usa nelle pause tra una pera e l’ altra.

 

Non sono gli unici ad avvertire la pressione. Dietro di loro c’ è il loro manager che cerca di ricucire ciò che ricucibile non è: Warehouse esce a Gennaio del 1987, il 7 Febbraio David Savoy completa le ultime piccole cose perché i ragazzi non abbiano problemi durante il tour, contatta gli agenti, i locali, gli alberghi. Fa una telefonata ai ragazzi per augurare loro un “in bocca al lupo”. Scende le scale, prende la macchina, accosta. E salta già da un ponte mentre i ragazzi preparano i bagagli per l’ ultima tournèe. “Warehouse: songs and stories”, testamento della loro bruciante avventura, è un album disgiunto. Anche senza farsi suggestionare da quello che succede negli equilibri della band, perché tutti i dischi degli Hüsker Dü vivono di questa dicotomia, di queste due facce che sono gli identikit di Mould e di Hart. Il primo scrive robuste ballate power pop inzuppate nel rumore, anthemiche ed amare. Scrive quasi sempre al passato. Hart ha una scrittura meno incisiva, più complessa, dissonante ma con meno artigli.

 

Non scrivono insieme, mai. Non solo non riescono, ma non sopportano l’ idea che qualcuno possa modificare le idee dell’ altro. Si dividono le quote su ogni disco, come fossero porzioni della loro stessa vita. Non sono una band, eppure sono la band più perfetta del mondo. C’ è un’ ostilità montante ma creativa. Mould e Hart scrivono canzoni perfette. Ma non sono Lennon/McCartney, ne’ Jagger/Richards, ne’ Strummer/Jones. Sono Bob Mould e Grant Hart. Due animali che condividono lo stesso fienile. E adesso, davvero per l’ ultima volta. Mould non sbaglia un colpo. E’ sua la “metà” che pesa di più, e non solo per le banali questioni di percentuali che Grant Hart chiamerà ripetutamente a sua difesa: These important years, Standing in the rainIce cold Ice, Could you be the one?, Visionary, Bed of nails. Se ci avete rinunciato, vi siete negati una bella porzione di canzoni da poter cantare con le lacrime agli occhi sotto una pioggia di rumore. In compenso, scommetto, vi siete fatti abbindolare da qualche abile venditore senza scrupoli che vi ha venduto l’ emo-core come il punk dell’ anima. Senza accorgervi che nelle sue bocce di merda d’ autore non c’ era ne’ il primo ne’ il secondo.

 

I pezzi di Grant, come da tradizione, sono più sgranati, hanno un guscio più molle ma spendono in zuccheri quello che il compagno invece sborsa in vitamine, dalle campanelline che risuonano lungo Charity, Chastity, Prudence and Hope e She floated away al pop alla Buddy Holly di Actual Condition ai passi marziali di You ‘re a soldier e Tell you why tomorrow. Sono due anime scollate, come sempre. Che però stanno ancora lì, in quella casa burrascosa e nemica ad entrambi. Come una coppia di separati in casa. Non un doppio album, ma un album doppio. Dentro, c’ è tutto il disincanto di chi è cresciuto con certezze che cominciano a crollare una dopo l’ altra, facendoti il vuoto attorno e seppellendoti di macerie. Niente è per sempre, neanche la tua band del cuore. Effimera e precaria proprio quando tu la credevi essere lì per sempre. Magari solo per te. Le colonne doriche della bottega degli Hüskers si sbricioleranno di lì a poco. E io non riesco ancora a liberarmi dalle sue rovine.


La fine dei sogni ricorrenti, delle estati da celebrare, delle albe di un nuovo giorno

Rimasta a bocca asciutta proprio nel momento in cui i boss si stavano sistemando le salviettine nel bavero delle camicie in attesa di spolpare la carne degli Hüskers, la Warner Bros cerca di sfruttare il nome degli Hüsker Dü un’ ultima volta nel 1994 con la pubblicazione di "The Living End”un nuovo disco dal vivo che, a differenza di Land Speed Record  non è più dettato da necessità economiche ed espressive ma da semplici motivazioni editoriali. L’ etichetta investe un’ultima volta sul nome del gruppo. Non quanto dovrebbe, limitandosi a stampare un disco singolo da quello che nei programmi avrebbe dovuto essere un doppio che celebrasse l’ ultimo tour della band di Minneapolis. L’ ultimo autunno della punk band più bella degli anni Ottanta. Come Bob Mould, anche io non ho ascoltato questo disco se non una volta o due. Anche io, come lui, non ne capisco il senso. Nonostante dentro ci sia qualche inedito che nessun disco degli Hüskers ci aveva offerto, la cosa che più amareggia è la consapevolezza che nessun disco degli Hüskers ce lo offrirà mai.  Non ci sarà più nessun disco degli Hüskers. Non ci saranno più sogni ricorrenti, estati da celebrare, viaggi brevettati, libri sugli UFO e albe del nuovo giorno. Mentre passano Ice Cold Ice e Celebrated Summer ci si scopre già vecchi. Come quando guardavamo i Manfred Mann e gli Zombies nei filmati dell’ Ed Sullivan Show. Addio, giovinezza.

 

Franco Lys Dimauro

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