Roger Waters IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?
[Uscita: 02/06/2017]
Inghilterra #consigliatodadistorsioni
Il ritorno di Roger Waters sul proscenio discografico, a distanza di un quarto di secolo da “Amused To Death”, disegna il paradigma dell’ulteriore involuzione dello scenario mondiale in questo turbinoso, drammatico, abissalmente mostruoso torno di tempo. Se possibile, questo “Is This The Life We Really Want?”, rilasciato per i tipi della Columbia e prodotto da Nigel Godritch, stregone dei suoni dei Radiohead, è uno dei lavori più marcatamente ideologici del mentore dei Pink Floyd. Uno sguardo spogliato di qualsivoglia speranza su un mondo disumanizzato e dolente, su un panorama dominato da sindromi paranoiche, ossessioni belliche, incontenibili e perniciose pulsioni di devastazione, irredimibili megalomanie e, soprattutto, sulla follia dei potenti del pianeta che assume la stupida e arrogante maschera della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Sembra che le speranze suscitate dalla caduta del Muro, che è come dire di tutti i muri, siano miseramente crollate sotto i colpi della stupidità umana, che dai disastri della storia nulla ha imparato in termini di emancipazione dalla violenza cieca e volgare. Ed ecco, compresenti nell’album tutti i temi della peculiare poetica di Waters: l’ossessione dell’istinto bellico, l’insorgere sempre più frequente sullo scenario mondiale di leader posseduti dai demoni della stupidità e dell’arroganza (il continuo riferimento in tal senso a Donald Trump, non solo ad apertura di ogni concerto con la scritta “Trump is a pig”, ma anche nelle pieghe dei testi del disco, ne è palese testimonianza), la perdita complessiva e ineluttabile di valori di una società sempre più conformistica e ignorante, la disillusione afferente all’improbabile capacità di emendarsi da questo stato di cose prossimo al nulla.
I testi grondano di riferimenti alla situazione politica mondiale attuale, nella quale si consumano odi e conflitti etnico-religiosi, in cui ogni concetto di pacifica convivenza pare utopia, in cui le bombe sganciate su civili inermi paiono l’unica rappresentazione possibile del rapporto tra i popoli. Musicalmente, l’album ricalca gli schemi collaudati dell’arte di Waters, da “The Wall” in poi. Voce dolente e intensa, impianto strumentale che pencola tra elegia di un mondo perduto e inabissato nei meandri della memoria e angoscioso grido per un’umanità dannata e irredimibile. La sapiente regia di Godritch dà quel tocco di inquietudine sonora che giova alla struttura complessiva dell’opera. Tra i brani più rilevanti si segnalano Déjà Vu, una dolente parabola di matrice gnostica per voce e archi sull’imperfezione della Creazione dell’uomo da parte di un Dio debole; The Last Refugee, che contempla lo spezzarsi dell’illusione di pace di un sopravvissuto all’ultimo bombardamento, che aveva sognato un nuovo mondo senza più guerre: qui l’intreccio delle note del piano e la sinuosa linea degli archi, cui fa da fondale la voce di Roger, è veramente intenso e struggente. La bella sezione ritmica iniziale di Picture That, cui segue la trama melodica classicamente floydiana, apre poi l’invettiva verso chi detenendo il potere lo adopera solo per distruggere (il riferimento a Trump è palese).
La voce di Trump campeggia nella sua arroganza nel segmento iniziale di Is This The Life We Really Want?, lenta e oscura discesa negli abissi dell’ignoranza umana, di un’umanità degenere troppo concentrata su piccole e grette parti d’esistenza, a tal punto da aver smarrito la visione d’insieme, il bene comune, un tessuto di valori che invece si sfalda vieppiù, cedendo il passo all’indifferenza verso la sofferenza del prossimo. L’odore di rose che pare finalmente respirarsi in Smell The Roses, con aperture soniche più ariose e distensive, si trasforma ben presto in un mefitico lezzo di napalm, con la speranza di un mondo pacifico ancora una volta sepolta sotto cumuli di bombe. Una dolorosa riflessione in musica e parole sul tema dell’attesa frustrata (della donna amata, di un mondo migliore), si dispiega, poi, con toni di intenso e struggente lirismo, nel trittico di brani che si apre con Wait For Her, ispirata ai versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish, e prosegue con i due segmenti finali, Oceans Apart e Part Of Me Died, melanconico fluire di note disciolte nel sangue come rugiada funebre. Un album doloroso, potente nella denuncia socio-politica, musicalmente ispirato e poetico.
Is this the album we really want? La mia risposta é netta, senza esitazioni ed incertezze. No. Questo è un album inascoltabile e francamente anche il messaggio che pretende di veicolare è privo di qualsiasi incisività. Waters ama sfondare porte aperte e lo fa perchè non è in grado di affrontare temi più grandi di lui con un’ottica che sappia andare oltre la più disarmante banalità. Assoluzione piena comunque. Anche il papa ad ogni piè sospinto pronuncia stanche e scontate esortazioni al genere umano. Dice “basta con le guerre”, tutti annuiscono e dicono “ha ragione, basta!” e tutto continua come prima, in tacito omaggio alla seconda legge della termodinamica. Forse Waters crede di essere più influente del papa? Ma no, lui ci prova, le studia tutte ma proprio tutte, espone cartelli con su scritto “Trump è un porco”, scrive testi sermoneggianti pieni di incontestabili ovvietà e di qualche four letter word.. Cosa non si fa per sopravvivere. Se poi si deve sopravvivere alla fama planetaria dei Pink Floyd l’impresa è disperata, meglio sarebbe neppure provarci. Non so se il suo disco fa più schifo di quello di Gilmour o di quello terribile postumo dei PF. Per volerci trovare a tutti i costi una nota positiva direi che stavolta il vecchio Waters ha dato un final (speriamo) cut alle sue lamentazioni funebri per il defunto padre. Meno male, ci ha già speculato abbastanza, non se ne poteva più.
Contenuto ideologico o pseudo ideologico a parte quello che lascia ancora più sgomenti è l’aspetto propriamente musicale del progetto, caratterizzato dal vuoto pneumatico di idee. Non esiste una sola canzone nell’album, soltanto nenie informi cantate con la solita voce accorata e dolente del protestatario. Gli arrangiamenti saccheggiano scarti di registrazione di The Wall e puzzano di naftalina quando non di stantio, un modernariato sonoro che è stato tirato fuori da un baule in soffitta e che non è,stato neppure spolverato. Non c’è traccia di sonorità se non innovative, non si pretente così tanto, almeno ristrutturate ed aggiornate. Tu chiamale se vuoi..citazioni.. Per quanti anni ancora dovremo sorbirci il ticchettio della sveglia di Time? Là era geniale, qui è patetica, come tutto il terribile mappazzone.
grazie Paolo per la nettezza e l’esaustività della spiegazione del tuo pensiero negativo e critico su questo disco. Una sorta di novella recensione, inesorabile e coerente nella sua lucidità e nella presa di posizione sulla materia musicale e non. Un feedback davvero prezioso…. saluti
pasquale boffoli – direttore edit.art.
Grazie a te Pasquale, ho scoperto da pochissimo la tua splendida rivista e spero di fare commenti anche positivi in futuro. In realtà ne ho appena scritto uno positivissimo sui Cigarettes After Sex, concordando al 100% col recensore. In genere comunque confesso di essere critico in modo spietato , tendo a stroncare tutto quello che per le mie non più giovani orecchie suona come un noioso dejà vu. Ed è il 90 % di quello che ascolto…
Ancora complimenti !