Angel Olsen BURN YOUR FIRE FOR NO WITNESS
[Uscita: 18/02/2014]
# Consigliato da Distorsioni
Alle spalle il disco d’esordio, “Half Way Home” targato 2012, e la partecipazione alla scuderia di Bonnie “Prince” Billy. Sulla tavolozza i colori già usati da mostri sacri come Joni Mitchell ed il Tim Buckley più intimo. Il presente si chiama Jagjaguwar, ovvero l’approdo ad una etichetta di livello, e “Burn Your Fire For No Witness”, il secondo album. In tasca qualche apprezzamento per il debutto e molti applausi, raccolti ovunque, per il secondo lavoro. La protagonista è Angel Olsen, cantautrice americana originaria del Missouri, che con quest’ultimo lavoro si conferma una delle artiste più promettenti nei campi affini al padre folk. Le undici tracce che compongono l’album testimoniano di una voce incantevole, profonda e seducente, di una capacità invidiabile nell’architettare le trame e di un’evoluzione rispetto all’asciutto alt folk dell’esordio. L’album è bello, attraente ed efficace, ma possiede anche diversi punti deboli. Se “Burn Your Fire For No Witness” testimonia un sicuro avvenire per la Olsen, l’oggi invece parla di melodie irresistibili, di momenti talmente profondi da stordire e ritornelli così ammalianti da stregare, ma anche di un appiattimento dei suoni sul lungo minutaggio.
A dispetto di “Half Way Home”, non c’è solo l’intimità e la delicatezza; ci sono anche delle chitarre grezze e ruvide, nelle quali riecheggiano i Velvet Underground più maturi, c’è l’indie sporcato dal lo-fi e ci sono anche passaggi onirici, sui binari della psichedelia algida di Jacco Gardner. Una miscela narcotica e suadente che attraversa questo album, con la voce che rimane per tutti e quarantacinque i minuti il punto di fuga della composizione, ma che non rappresenta l’unica attrazione. Sotto la superficie si succedono arpeggi dolorosi e angoscianti, lente ballate ruvide o sprazzi di rock, seppur levigato. Spesso gli accordi che reggono un brano sono pochi, tanto da saper provocare soffocamento e inquietudine nell’ascoltatore nei momenti più bui, alla maniera dei migliori Mazzy Star. Altre volte la costruzione più energica ed elettrica permette ad umori primaverili di riemergere dalla cupezza e dalla lentezza, mantenendo pur sempre un filo di malinconia. Il risultato è un amalgama che ben si distanzia dal lavoro di due anni fa, legato a influssi alt-folk, che giustificava il paragone con Joni Mitchell: levigato sì, interiore pure, ma anche torbido, ora.
La Olsen riesce a plasmare melodie magnetiche nella loro freddezza e struggenti nella loro fragilità, lucida e dolorosa anche nelle parole: “… i lost my fream, i lost my reason all again” e “… i am the only one now” della traccia d’apertura sono il paradigma della combinazione degli elementi. Così com’è struggente il racconto della solitudine di Hi-Five o il filo di voce spezzata che apre White Fire con “… everything is tragic”. Le atmosfere autunnali ricorrono spesso nell’album, evocate dalle chitarre pastello di Unfucktheworld o dall’arpeggio sinistro che si insinua tenebroso in White Fire. La voce sovente ovattata conferisce un gusto retrò alla composizione, soprattutto quando le trame diventano essenziali nella loro struttura, così come dimostrano le fairportiane High & Wild e Lights Out. Per il resto, la voce si fa largo nelle tracce più spirituali (Iota, Enemy, Windows), così come si impone l’indie vagamente psych (Forgiven/Forgotten e Hi-Five), senza mai perdere brillantezza (Stars) e carica espressiva (Dance Slow Decades). Seppur nel complesso il lavoro possa suonare anche ridondante, dunque, l’album lascia un’ottima impressione. Ma “Burn Your Fire For No Witness” è anche l’annuncio di un sicuro avvenire per l’artista americana.
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