Traffic Quando volano le aquile
I N T R O
E' certamente arduo contemplare una spiegazione plausibile riguardo all’oblio che ha ammantato una formazione straordinaria come i Traffic. Il fatto di incarnare lo spirito del tempo, di volta in volta coniugato in differente stilema, lungi dall’essere, e giustamente, considerato emblema di modernità e intelligenza creativa capaci di dar corso a innovazioni musicali per le generazioni successive, facendoli essere, de facto, dei capostipiti, paradossalmente ne ha tarpato le ali, in ordine al riconoscimento della loro grandezza nei decenni successivi.
In un mondo, quello di certa critica musicale, che poi orienta in taluni casi sciaguratamente i giudizi, il fatto di non appartenere ad alcun genere sufficientemente cristallizzato in una forma immediatamente e una volta per tutte definibile, o di mutare registro, con splendidi esiti artistici, tra l’altro, da disco a disco, ha nuociuto alla formidabile band albionica. Psych ante litteram, progressive, rhythm’n’blues, soul? I Traffic sono stati tutto questo, e altro ancora, tuffati in una miscellanea di stili e generi musicali, in gran parte avveniristici e paradigmatici per i gruppi a venire, con raffinata sintesi creativa e punte ionosferiche di genialità. Verrà tempo che la loro formidabile proposta musicale sarà universalmente rivalutata, allo spirare delle perniciose mode categoriali che, esaltando come seminali band mediocri, relegano nel più funesto oblio formazioni che capitali lo erano davvero.
Nascita di un mito: i primi anni
E’ il 1967. Un geniale ragazzo di Birmingham, Steve Winwood, sta ultimando la sua esperienza artistica con la band di Spencer Davis (S.D.Group), nella quale era entrato, in modo roboante, nemmeno diciassettenne, nel 1965. Nella line-up dello Spencer Davis Group, figura anche il fratello Muff alla chitarra basso. I due fratelli lasciano la band nell'aprile 1967, che non molto dopo declinerà irreversibilmente. Steve, dopo una fugace collaborazione con Eric Clapton (li ritroveremo più innanzi nei Blind Faith), fonda i Traffic, con il geniale batterista Jim Capaldi, il bravo fiatista Chris Wood e l’ottimo chitarrista e polistrumentista Dave Mason. Il gruppo esordisce con un 45 giri: “Paper Sun”, dal chiaro sentore psichedelico, con l’uso del sitar e di una profluvie di percussioni. Il 45 piace immediatamente a pubblico e critica, per la sua freschezza e la variegata gamma compositiva. La voce di Steve s’impone come assai caratteristica, venata com’è da linee di ascendenza soul-blues, mutuata dal Nostro dalla sua fondamentale esperienza con la band di Spencer Davis. Il successo del 45 giri, seguito da altri due notevoli singoli, Holy In My Shoe (scritto da Dave Mason, non troverà il pieno consenso degli altri tre, prefigurando così, sin da adesso, lo iato che porterà Dave a lasciare più tardi il gruppo), e Here We Go Round The Mulberry Bush, main theme del film omonimo di Hunter Davies (nella colonna sonora figurava anche lo Spencer Davis Group) spinge i Traffic a tentare la prova sulla lunga distanza.
"Mr.Fantasy": psichedelia e grande creatività di squadra
Esce così alla fine del 1967, per i tipi della Island, il loro primo long playing, “Mr. Fantasy”. Il disco ottiene un lusinghiero riscontro di vendite, soprattutto negli U.S.A, grazie all’estrema variegatezza della proposta musicale: una spettrografia che spazia dal rhythm’n’blues, al soul, al beat psichedelico, con uno Steve Winwood ispiratissimo (scrive quasi tutte le musiche dell’album, lasciando a Capaldi l’onere dei testi) e maramaldo alle tastiere. Heaven In Your Mind dà subito il tono al disco, col sax di Wood snodato su languide spire serpentine, la voce di Steve screziata di nicotina, il pulsante e percussivo incedere di Capaldi, la chitarra “carsica” di Mason. Favoloso è poi, tra l’altro, l’incipit di House For Everyone: pennellate di sostanza psichedelica, trapunte dei rimandi del flauto di Chris Wood, arrangiamenti tuffati nelle acque scintillanti degli archi.
Si potrebbe dire, senza tema di smentita, che ogni singola traccia di quest’album può, a buon diritto, essere annoverata tra i classici. Cosa dire, a conferma di ciò, della splendida No Face, No Name, No Number? Ballata dai toni soffici ma che prelude all’abisso. Classico dei classici, brano idolatrato, imitato, studiato da intere generazioni di musicisti, Dear Mr. Fantasy, brano innervato su una grandiosa struttura blues, con la voce di Steve perfettamente calibrata, la chitarra di Mason, in assoluto rilievo, lanciata lungo ideali sentieri lisergici, l’armonica a far da contrappunto: brano memorabile. Il sitar iniziale e la voce in chiave di pretta psichedelia di Steve connotano vivamente la bella traccia sonora di Utterly Simple, sulla medesima scia si muove Coloured Rain, con una coda finale di taglio organistico assolutamente strepitosa. Il prodigioso blues elettrico di Giving To You, con i metafisici intarsi tastieristici di Steve, chiude un album grandissimo.
"Traffic": raddoppio di sincretismo ed ispirazione
Sull’onda del successo del primo Lp, i Traffic, scongiurato un primo tentativo di fuga dal gruppo di Dave Mason, sempre più in rotta di collisione con Winwood, incidono nel 1968 il secondo album, “Traffic”. L’album pencola virtuosamente tra una chiara impronta stilistica virata al blues e i primi riferimenti ante litteram a quello che di lì a poco sarebbe stato il fenomeno del rock progressive. Brani come Pearly Queen, dall’impianto di matrice blues, con la chitarra di un “redivivo” Mason che domina tra i solchi, potente e ispirata, la voce materiata di echi soul del grande Winwood; o la superba ballata folk di Feelin’ Alright, con la voce di Dave Mason calibrata su timbri di estrema morbidezza, e la molle e preziosa ovatta del sax di Wood a dipanarsi nell’etere come candida nuvolaglia; o la strepitosa traccia progressive di Forty Thousand Headmen, col flauto di Wood che fa da contraltare alla fluente armonia dell’organo, in un continuo variare della policromia sonora, simile a un affresco basilicale a più strati, connotano nel senso della grandezza anche quest’album, e fanno rilevare, ove mai ve ne fosse bisogno, la grande capacità sincretistica del gruppo, abile nel muoversi con perfetta padronanza tra svariati generi musicali, segno certo di virtuoso eclettismo e maestria creativa.
Le prime crepe nel muro: di fughe e ritorni
Le crepe già evidenti nel primissimo periodo nell’edificio artistico dei Traffic, sostanziantisi nei dissidi tra Mason e il resto del gruppo, mettono a serio rischio il prosieguo dell’avventura musicale della band. Di quel periodo è la collaborazione di Steve Winwood con Jimi Hendrix in “Electric Ladyland” (Voodoo Chile) e la vera e propria dissoluzione, per fortuna per un brevissimo periodo, della band. Steve confluisce nel progetto dei Blind Faith di Eric Clapton. Nel frattempo, la Island aveva licenziato nel 1969 “Last Exit”, un album per metà composto da due lunghi brani dal vivo (Feelin' good e Blind Man), per metà da cinque brani scartati dai due precedenti lavori. Vi spiccano Just For You di Dave Mason, e le splendide Shanghai Noodle Factory e Medicated Goo, scritte in collaborazione con il produttore Jimmy Miller. Entrambe compaiono anche nella bella antologia sempre del 1969, "The Best of Traffic", un riuscitissimo sunto in pratica dei primi due grandi lavori in studio.
John Barleycorn Must Die: il capolavoro definitivo
Ben altra musica, è il caso di dirlo, si registra con uno dei sommi capolavori dei Traffic, a inaugurare un periodo di netta e inequivoca virata stilistica in senso jazz-rock e progressive. Esce nel 1970 “John Barleycorn Must Die”. E dire che, coi venti di dissoluzione della band sempre attuali e incombenti, il suddetto disco era stato concepito come il primo lavoro solistico di Steve Winwood. Vi erano stati chiamati, in qualità di collaboratori, ad eccezione di Dave Mason, ormai transfuga, gli altri membri. In corso d’opera, si decise di far uscire il disco sotto l’egida dei Traffic. Il disco si apre con una clamorosa jazzistica “Glad”, nella quale il genio proteiforme di Steve si dipana ben oltre l’orizzonte tastieristico di riferimento, col sax di Wood a ricamare trame cristalline nell’ordito del brano, dando sin dall’inizio un’impronta programmatica indubitabile in ordine al nuovo corso musicale intrapreso. Tasselli di gran classe, inoltre, a comporre il mosaico sonoro del disco, sono certamente anche la raffinata Freedom Rider, con un dialogo virtuoso tra tastiere e sax, e intarsi di flauto ad impreziosirne il tessuto.
La voce di Steve, sempre venata di febbricose atmosfere soul completa il quadro. L’elegante e sinuosa Empty Pages, con una superba prestazione vocale di Winwood, spalmata su un morbido tappeto organistico, e corredata di splendidi arrangiamenti. Dal respiro decisamente soul è l’incipit di Stranger To Himself, tributo di Steve ai suoi gloriosi trascorsi nello Spencer Davis Group, per poi sviluppare evoluzioni in pieno stile southern rock, con “a solo” finale di chitarra, dello stesso Steve, favoloso. Placido veleggiare nei mari madreperlacei del miglior folk è John Barleycorn Must Die, traccia omonima del disco, rimodellata da un’antica ballata britannica. Chiude l’album la sontuosa Every Mother’s Son con un intarsio finale di tastiere da antologia. Un disco eccezionale, colmo di perle sonore, soluzioni creative prodigiose, varietà virtuosa di stili, stato di forma dei musicisti strepitoso. Nella ristampa del 1999, figurano due bonus tracks: I Just To Know You e Sittin’ Here Thinkin’ Of My Love, mutuati da un progetto di disco solistico di Winwood che non vide la luce.
Benvenuti nel club
Registrato a Londra dal vivo ( Fairfield Halls, Croydon, Oz Benefit Concert), nel 1971, esce l’album “Welcome To The Canteen”, più un progetto a più mani che un disco dalla struttura omogenea. Esso contempla sei brani, dei quali tre estrapolati dai tre album in studio (Medicated Goo; Forty Thousand Headmen; Dear Mr. Fantasy), due dal lavoro solistico di Dave Mason, ”Alone Together”, redivivo in quest’album, e Gimme Some Lovin’, il classico del repertorio dello Spencer Davis Group, nel quale, giovanissimo, aveva militato Steve Winwood. Il disco, pur essendo tutt’altro che malvagio, segna uno scacco clamoroso nella discografia dei Traffic, e rileva soltanto in senso positivo il fatto che alla band si aggiunge il valentissimo bassista Ric Grech, ex Family e Blind Faith, che entra a far parte dell’organico del gruppo guidato dal fuoriclasse di Birmingham, unitamente al batterista americano Jim Gordon ed al percussionista Anthony “Reebop” Kwaku Baah.
Nuovo decennio, nuova pelle: “The Low Spark Of High Heleed Boys” ed altre meraviglie.
Nel novembre del 1971, esce un nuovo disco dei Traffic: “The Low Spark Of High Heleed Boys”, con Ric Grech, Jim Gordon e Reebop nella rinnovata line-up, senza naturalmente Mason, di nuovo transfuga. Il disco è decisamente virato verso soluzioni stilistiche di matrice jazz-rock, con qualche inserto marcatamente folk, e naturalmente soul, soprattutto in chiave vocale da parte di Steve Winwood. Il prezioso intervento del flauto apre il disco con la elfica Hidden Treasure, cui segue la title-track in chiave di rhythm’n’blues, col sax di Wood che impone le sue limpide architetture sonore. Il lider maximo Winwood si concede addirittura un gesto di estrema munificenza, cedendo la possibilità al fido Capaldi di cantare in ben due brani dell’album: Light Up Or Leave Me Alone e Rock’n’Roll Stew. Brano superbo è, poi, Many A Mile To Freedom, una distesa di suoni dalle reminiscenze folk-rock, con intarsi raffinati di flauto a corredarne il senso di ovattato splendore. Rainmaker costituisce la giusta epitome sonora, dal sapore vagamente progressive, per un album qualitativamente sempre all’altezza della classe dei Nostri, benché ampiamente sottovalutato dalla critica, nell’ambito della loro sontuosa discografia.
Nel 1973, sempre per la Island, esce il validissimo “Shoot Out At The Fantasy Factory”, nel cui organigramma sono contemplati, oltre ai consueti componenti classici del gruppo, il bassista David Hood, il batterista Roger Hawkins (rhythm section dei gloriosi Muscle Shoals studios), il percussionista Rebop Kwaku Baah e l’ottimo pianista e organista Barry Beckett. Il disco suona distante, per freschezza d’idee e trame armoniche, dai massimi capolavori della band, ma risulta ancora di robusto impatto e gradevolezza compositiva. Brani dall’impianto blues-rock alquanto sostenuto come l’iniziale e omonima traccia, Shoot Out At The Fantasy Factory, con la voce di Steve a imporre la sua legge inderogabile al resto della struttura musicale, la chitarra di taglio decisamente rock, la batteria di Jim pulsante e ossessiva, o la distesa sonora dal sapore folk di Roll Right Stones, dipanantesi per oltre tredici minuti nei territori della ballata più intimistica, e preludente al molle fluire delle note di Evening Blue, una sorta di lenta discesa su quiete vallate avvolte dai primi raggi del crepuscolo. Poi la sinuosa melodia di Tragic Magic, firmata da Chris Wood, una raffinata elegia progressive per sax e piano in somma evidenza, e la conclusiva (Sometimes I Feel So) Uninspired, inquadrabile nel canonico e collaudato stile della band di Winwood, non fanno che sancire, ove ve ne fosse bisogno, che la classe dei Nostri è ancora intatta, sebbene i livelli dei loro dischi migliori comincino ad apparire ormai inattingibili.
Il lavoro dal vivo registrato in Germania, e uscito nell’ottobre del 1973, “On The Road” prevede la stessa line-up di Shoot Out At The Fantasy Factory. La versione primigenia dell’album concepita come disco singolo, viene successivamente ampliata fino alla doppia versione, e contempla brani tratti dai precedenti lavori da studio del gruppo, con versioni estremamente dilatate, talora un po’ prolisse ma dense di soluzioni tecniche eccellenti, che mostrano i musicisti in una forma smagliante. I quasi ventuno minuti di Glad ne sono la più palese e inequivoca dimostrazione. Sul tappeto del mirifico brano si dispiega un manto di sontuose improvvisazioni, di ghirigori virtuosistici, di scale formidabilmente modulate. Notevoli anche le versioni di Tragic Magic e di Shoot Out At The Fantasy Factory, quest’ultima come percorsa dal fuoco sacro del rock-blues più incalzante, con la voce di Winwood ispiratissima e calibrata sulla chitarra lancinata e distorta. Un disco che non riscontra grande consenso da parte della critica specializzata, poiché ritenuto prolisso anzichenò e ridondante in molte sue parti, ma che si piazza in modo lusinghiero nelle classifiche di vendite, e che comunque testimonia la grandezza tecnica e la versatilità stilistica della formidabile band britannica.
Ultimi fuochi e crepuscolo degli idoli
Il successivo album dei Traffic, “When The Eagle Flies”, che vede la luce nel 1974, registra l’ingresso nella line-up del bassista Rosko Gee e la defenestrazione prima dell’ultimazione del disco del percussionista Rebop Kwaku Baah oltre che di Hawkins e Hood, alla fine del tour mondiale che aveva prodotto il live On The Road. E’ un lavoro ancora molto dignitoso, con intarsi di mellotron e moog a profusione, con la voce sempre pregnante di Steve dal taglio sovranamente soul, e tuttavia è lontano sideralmente dagli splendori precedenti. All’anonimo esordio di Something New segue la sontuosa architettura sonora di Dream Gerrard, una miscellanea di stilemi sospesi tra soul, rhythm’n’blues, prog-jazz, il cui unico punto debole è forse l’uso inopportuno e mielato di certi inserti per archi. Intrigante anche la linea melodica di Graveyard People, col sax di Chris Wood (che nel frattempo accusa problemi con le droghe e di depressione) a punteggiare di note luminose il tessuto tastieristico del grande Winwood. Una parte centrale che declina verso soluzioni un po’ più scontate e prive di spunti creativi adeguati alla grandezza della band (Walking In The Wind; Love; When The Eagle Flies), con la sontuosa eccezione della splendida Memories Of A Rock’n’Rolla, suggella in chiave di ‘calando’ un disco colmo di luci e ombre, ma pur sempre di livello buonissimo, in ragione della classe indubbia e cristallina dei musicisti in questione. Durante la tournée di lancio del disco i Traffic si sciolgono. E’ il 1974 e occorrerà attendere un ventennio prima di rivederli all’opera sotto la prestigiosa sigla.
Ritorno di effimere scintille e definitivo tramonto
Nel maggio del 1994, esce per la Virgin “Far From Home”, a quattro lustri da “When The Eagle Flies” e conseguente scioglimento della band. Steve Winwood a sorpresa riforma i Traffic - nel frattempo la sua carriera solista è già avviata da tempo - fatalmente senza più il povero Chris Wood (passato a miglior vita nel 1983, stroncato da una polmonite mentre attendeva al suo album da solista, “Vulcan”). L’album vede imperversare agli strumenti quasi
esclusivamente Winwood e Capaldi, con l’ausilio estemporaneo di Davy Spillane e Mick Dolan, Micheal McEvoy, Randall Bramblett, Reyes Jr. Il disco ovviamente risente dell’assenza pesantissima di Chris Wood, in termini di creatività e fantasia nel canone stilistico, e tuttavia - sorprendentemente perché si tratta comunque del lavoro meno rilevante artisticamente dell’intera e gloriosa carriera dei Traffic - raggiunge lusinghieri successi di vendita, più originati dalla grande attesa per l’annunciata ricostituzione della band che in ragione dell’effettivo valore del disco che risulta, seppur non disastroso, certamente anonimo.
Brani come Riding High, Here Comes A Man, Far From Home, Some Kinda Woman, Every Day Every Night, This Train Won’t Stop, risultano essere soltanto la pallida e sfocata sinopia delle tante perle scaturite in passato dalla fantasia e dalla classe cristallina di Steve Winwood.
Brani eccellenti, invece - pochi invero, troppo pochi per una band di tale lignaggio - sono prima di tutto l'impetuosa ed avvincente Nowhere Is Their Freedom che riafferma con prepotenza la travolgente seduzione vocale di Winwood, Holy Ground, su un tappeto di note di derivazione celtica, la bellissima e intensa State Of Grace che pare germogliare dalla vena più ispirata dei Traffic del loro periodo di maggior splendore, e l’incalzante e pirotecnica Mozambique.
In definitiva, poiché questo sarà l’ultimo album della band britannica, una prova malinconica e tutt’altro che convincente. Molto influenzata nella produzione dai toni eccessivamente patinati di un paio di lavori solisti molto commerciali di Winwood della seconda metà anni '80 ("Back in the High Life" - 1986 e "Roll with it" -1988). Jim Capaldi morirà tristemente nel 2005, a 61 anni, a causa di un cancro allo stomaco. Aveva inciso tra il 1972 ed il 2004 una quindicina di album solisti. Tra i più riusciti "Oh How We Danced" (1972), "Whale Meat Again" (1974), "Short Cut Draw Blood" (1975), "Some Come Running" (1988), "Poor Boy Blue" (2004). Tutta la sua nobile arte e fiero apporto alla storia del soul (una delle sue passioni come tutta la musica nera), del rock e del pop sono riassunti nel bel cofanetto di 4 CD "Dear Mr.Fantasy: The Jim Capaldi Story" (2011).
Steve Winwood continua a tutt'oggi una carriera solista iniziata nel 1977 (nove album in studio) che ha alternato buone opere ("Steve Winwood" - 1977, "Arc of a Diver" - 1980, "About Time" - 2003, "Nine Lives" - 2008) ad altre velleitarie ed inefficaci ("Refugees of the Heart" - 1990, "Junction Seven" - 1997) se non all'insegna di uno sfacciato mainstream in odor di classifica, come su accennato (Back in the High Life, Roll with it). Nel terzo millennio fa l'ospite di lusso e ripropone le leggende Traffic, Blind Faith e Spencer Davis Group in eventi diversi, come in occasione del notevole doppio CD/DVD "Live from Madison Square Garden" (2009) con il vecchio compagno d'avventure Eric Clapton, e "Back in the High Life: Live" (2009). Traffic rimane una delle formazioni più creative ed esaltanti nella storia del rock, lato sensu inteso, capace di coniugare con classe infinita, e su una scala di valori preziosi e assoluti, una miriade di stilemi variegati e di produrre il prodigio di una loro reductio ad unum, sempre nel segno della grandezza che non tramonta e del germoglio imperituro della leggenda che non conosce oblio.
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