Vijay Iyer, piano solo Verona Jazz Winter 2016: Vijay Iyer, piano solo 30 Gennaio 2016, Verona, Teatro Ristori
L'apertura di Verona Jazz Winter 2016 (diretto con acume da Angelo Curtolo) ha avuto il merito di accogliere il primo concerto italiano in piano solo di Vijay Iyer; e chi scrive, il privilegio di vivere un'occasione preziosa, un momento che il jazz contemporaneo raramente esprime, immerso da tempo in una globalità di suoni (il "già sentito", quasi "ad libitum") che nulla aggiunge in una proiezione futura: e Vijay Iyer cerca di scardinare questa incertezza latente con risoluta dedizione, delineando nuovi orizzonti: la tappa veronese ne è una conferma.
Iyer, da oltre un lustro, è un pianista in perenne ascesa nella ricerca di una dimensione "altra" e "alta" che travalica le consuetudini accademiche, i riconoscimenti o gli slanci suggeriti da esigenze di box office: in questa cornice, l'esibizione veronese segna forse un momento di non ritorno per l'artista indo-statunitense.
L'approccio sulla tastiera (di un superbo Steinway grand piano), prima è riflessivo, alla ricerca di un filo di perle per una suite che non si disvela subito: si fa poi risolta in un tema che richiama Work di Thelonious Monk, seguìto da una originale rilettura degli esiti dell'incontro tra la musica nera ed europea del Novecento, dove le dinamiche del suono si permeano di una timidezza nascosta che, appena superata, si esprime in una discesa scura, nel "maelstrom" (il gorgo di Lennie Tristano) e per riemergere dai suoi grovigli con sicura convinzione.
Le corde del piano, i martelli, nel loro pulsare percussivo evocavano le braccia contorte di un albero sonoro che rompeva il cielo con la forza innata che Vijay pareva voler lanciare oltre un orizzonte fattosi reticolato: la rottura degli schemi, la liberazione della civiltà nera africana in terra d'America. I labirinti e i vortici di Bergamo Jazz 2015 nella dimensione solista del Teatro Ristori si sono rarefatti in una maggiore sottolineatura, specie nel registro grave (della mano sinistra), che rimandava in un continuum lacerato da contrasti scuri per superarli nel ritorno ad un respiro più ampio sugli acuti.
Quella di Iyer è stata la sincera lezione di un maestro in grado forse di risolvere l'eterno dilemma dell'antitesi tra modernità e avanguardia, ricerca e tradizione, con un atteggiamento di garbata riconoscenza: prima verso il pianista Andrew Hill ("my friend and mentor") uno dei suoi autori di riferimento, che si è snodata in Golden Sunset, Verona Rag, Siete Ocho e Jasper e poi in una rilettura di alcuni originals di sua composizione.
Il concerto è stato un alternarsi di dialoghi con un pubblico attento, partecipe sino in fondo dell'avventura veronese, che Iyer con voce pacata ha saputo arricchire con ricordi, riflessioni sulle precedenti esperienze scaligere, senza dimenticare Romeo And Juliet e la signorilità dell'accoglienza, in un Teatro Ristori dall'acustica eccellente.
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Il fluire delle emozioni del post-concert si scioglieva oltre il foyer, dove Vijay Iyer, generosamente, salutava gli appassionati, firmando copertine di cd e distribuendo un sorriso accennato colmo di gioia nascosta.
Fuori, dietro il nero fumo di una notte umida, rimasti soli con la luce fioca di una locanda, abbiamo scorto la figura di una danzatrice, che nella sorte e con la passione ha voluto assistere con me, idealmente, ad un concerto indimenticabile. Dietro il vicolo, Thelonious Monk, Andrew Hill e Lennie Tristano si salutavano, felici, quasi di non essere riconosciuti.
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