Deep Purple 22 Giugno 2017, Roma, Palalottomatica
InFinite 2017- The Long Goodbye Tour:
l'addio alle scene
In tempi come i nostri, in cui spesso chi svolge lavori ordinari non riesce facilmente a giungere alla meritata pensione, fa un certo effetto constatare che alcuni degli esponenti del rock più classico stiano annunciando il ritiro dalle scene. I Deep Purple sono sulla breccia da cinquant'anni e l'età media dei componenti è ormai oltre la settantina. Forse è giusto che vada così, il rock in fondo era nato come musica dei giovani e per i giovani e nessuno, nei decenni passati, aveva potuto prevedere che tale musica e quindi i suoi esponenti potessero giungere a certi standard anagrafici continuando a fare le cose che facevano in gioventù. In ogni caso la carriera di questo gruppo è stata straordinaria e merita un finale dignitoso (InFinite 2017 - The Long Goodbye Tour 2017).
I Deep Purple alla fine degli anni sessanta hanno di fatto inventato un genere musicale, l'hard rock, che in seguito si sarebbe chiamato heavy metal rock e che viene seguito, in tutte le sue diramazioni, da milioni di persone nel mondo. L'hard rock all'inizio era un'attitudine, non un genere. Dall'approccio rabbioso e iconoclasta degli Who, passando attraverso la rilettura in chiave elettrica del blues da parte di Cream, Jeff Beck Group e Jimi Hendrix Experience, per poi arricchirsi con sonorità psichedeliche dove le tastiere giocavano un ruolo antagonista alla chitarra (Vanilla Fudge, Nice, Iron Butterfly, Crazy World Of Arthur Brown) si arriva all'Hard Rock come filone storico. I gruppi che lo hanno espresso sono tanti, ma è indubbio che formazioni come i Led Zeppelin, i Black Sabbath e appunto i Deep Purple occupano un ruolo predominante che nessuna formazione successiva ha potuto eguagliare, a prescindere dalle vendite dei dischi.
Un disco come "Deep Purple In Rock", uscito nel 1970, ha suscitato una sorta di effetto sorpresa sulle orecchie degli appassionati di musica di quel periodo. La prima traccia di quell'album epocale, Speed King, è un compendio di tante suggestioni diverse che all'epoca nessuno aveva saputo riunire con tanta disarmante naturalezza. Il muro di suono distorto d'apertura, la solennità della musica barocca, un riff d'assalto e un cantato rabbioso, un testo che nella sua freschezza di matrice working class ("E' venerdi' sera, mi hanno appena pagato, faro' rock'n'roll fino a New Orleans...") tende una mano appunto al jazz, di cui New Orleans e' stata la patria. Jazzato è infatti il fraseggio della chitarra di Ritchie Blackmore e delle tastiere di Jon Lord. E in quel testo così fieramente working class, il cantato esuberante di Ian Gillan evoca alcuni dei brani piuù carismatici del rock'n'roll degli anni cinquanta (Good Golly Miss Molly, Lucille, Tuttifrutti), la musica da cui tutto è iniziato, e che ha tanto influenzato la generazione dei Purple.
Il Concerto romano
Non è questa la sede per ripercorrere la carriera di questo gruppo glorioso, e vi raccontiamo qualcosa della magica serata romana del 22 giugno 2017 al Palalottomatica. Questo grosso palazzetto dello sport che un tempo si chiamava Palaeur e che è stato teatro del primo concerto dei Purple sul suolo italiano. Correva l'anno 1971. A quell'epoca in due ore di concerto i Deep Purple suonavano sei o sette brani, tutto era una fluida e torrenziale jam session dove chitarra e tastiere si sfidavano in maratone solistiche mozzafiato, e spesso tutto terminava in un'orgia sonora apocalittica e distruttiva. Ora è diverso. I brani in scaletta sono quindici, e il solismo, pur sempre presente e straripante, è contenuto in limiti temporali più contenuti. Il chitarrista Steve Morse e il tastierista Don Airey hanno raccolto il testimone di Ritchie Blackmore e di Jon Lord, e il loro grande talento è riuscito nel tempo a convincere anche molti inguaribili nostalgici del Purple sound storico.
Il cantante Ian Gillan, che da anni non ha più la stessa timbrica che lo aveva reso leggendario, conduce lo show in modo genuino, dando quello che può e riuscendo a fare tenerezza. Grande lavoro della sezione ritmica, gli indomabili Roger Glover e Ian Paice non perdono un colpo, un treno che non sembrerebbe arrivato all'ultima corsa. L'ultimo disco dei Purple, Infinite, prodotto come il penultimo da Bob Ezrin, è un disco maturo e intenso, e il gruppo deve crederci molto. Era dal 1974, dal glorioso tour promozionale di "Burn", che questa band non proponeva come pezzo d'apertura concerto una traccia dell'ultimo lavoro. Time For Bedlam (da Infinite), con le sue sonorità inquietanti e coinvolgenti, assolve magistralmente al compito di aprire le danze. Una micidiale doppietta di brani d'epoca come Fireball e Bloodsucker fa venire i brividi a tutti. Strange Kind Of Woman è riarrangiata in modo tale che Gillan, pur non potendo ormai raggiungere le tonalità più acute, può comunque duettare con la chitarra.
A questo punto si continua con brani degli ultimi due dischi, cose come Johnnys' Band, la progressiva Uncommon Man e la sinuosa e inquietante The Surprising. Lazy viene riproposta con un arrangiamento molto seventies, e poi ancora brani dell'ultimo periodo come Birds Of Prey e Hell To Pay. Un lungo e incredibile assolo di Don Airey introduce l'ormai classica Perfect Strangers, il brano che sancì la reunion del 1984. E a questo punto la parte finale del concerto è affidata a brani vecchi e amati dal pubblico come Space Truckin' e in particolare Smoke On The Water, uno di quei brani ormai scritti con lettere di fuoco nel grande libro della musica popolare. I bis sono Hush, primo successo della band targato 1968, e Black Night, che due anni dopo diede loro il successo definitivo. Quest'ultimo brano viene aperto da un clamoroso assolo di Roger Glover e chiuso da un'esaltante tirata finale di Steve Morse. Chi scrive ha visto i Deep Purple decine di volte, dal 1985 ad oggi. Ancora una volta si esce soddisfatti, appagati, più felici di quando si è entrati. Il rock'n'roll è una forza vitale che fa bene allo spirito. Se questo è veramente l'ultimo atto dei Deep Purple...gloria eterna a loro!
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