Nico ELEGIA DELL’ANGELO TRAFITTO
Spettrografia poetica di una stella oscura
Arcangelo delle tenebre della musica rock, modella sensuosa e serpentina, attrice di statuario impatto: tutto questo ha rappresentato Christa Päffgen, in arte Nico, e altro ancora, icona maledetta e oscura per intere generazioni, musa ispiratrice e tentatrice Lilith per spiriti infiammati dal dannato fuoco nero del rock, spirito abbagliante entro foreste di simboli, e, insieme, vittima ella stessa del suo venefico fascino avernale. E’ la bellezza ustoria che arde con moltiplicata intensità, riducendo la vita ordinaria a mera e disseccata parvenza, poiché laddove regna il suo soffio ogni cosa si accartoccia e crepita in morta favilla, ala di falena incenerita alla purissima fiamma dell’autoannientamento nell’arte.
I primi anni: dalle macerie a ipotesi di splendore
Nico, nome d’arte consigliatole da un suo amico fotografo ai tempi in cui faceva la modella, nasce a Colonia il 16 ottobre del 1938. Infanzia irta di soverchie difficoltà e traversie: il padre muore in un campo di concentramento nazista; vive in condizioni miserrime gli anni della fanciullezza, in una Germania devastata dalle conseguenze belliche. La particolare venustà di Nico viene notata da impresari berlinesi della moda che la avviano a quella scintillante, sebbene effimera, carriera. S’impone subito per la spiccata personalità e per il notevolissimo impatto sensuale in un mondo che pure sente come angusto. Si trasferisce a Parigi allo spirare degli anni Cinquanta, dove inizia a lavorare per le più prestigiose riviste di moda dell’epoca e dove la sua incendiaria personalità le fa vivere avventure alquanto singolari, soprattutto di matrice sentimentale. Ha un’appassionata relazione con quello che sarebbe diventato uno degli attori più importanti della storia del cinema: Alain Delon, dalla quale nasce un figlio, Aaron (Ari, per il quale lei comporrà in seguito lo splendido brano Ari’s Song), che Delon, tuttavia non riconosce e che viene praticamente cresciuto dalla madre dell’attore. Nel frattempo, ha modo di ottenere una piccola parte ne “La Dolce Vita” di Federico Fellini. Una breve relazione la lega, intanto, durante un fugace soggiorno a Londra, con Brian Jones. La svolta vera, in quanto a importanza per la formazione definitiva della personalità artistica di Nico, avviene, però, quando decide di trasferirsi a New York.
Ambulando per inquietanti “Sotterranei di Velluto”…
L’incontro decisivo, tuttavia, per la carriera artistica di Nico, avviene con lo stregone pallido Andy Warhol, re della Pop-Art e agitatore culturale predominante a New York, in quegli anni. Conosciuto attraverso Bob Dylan, Andy, la introduce nel giro della Factory, compagnia di artisti alternativi tra cui spiccano Lou Reed, Jon Cale e coloro che di lì a poco avrebbero costituito il nucleo fondamentale dei Velvet Underground. Dapprima, viene coinvolta come attrice in pellicole sperimentali dello stesso Warhol, poi, intuendo in lei doti canore rimarchevoli, da lui letteralmente imposta come vocalista nel progetto del primo leggendario album dei Velvet, che non a caso reca il nome di Nico in copertina, oltre alla celeberrima banana disegnata da Andy. In uno dei dischi fondamentali della storia del rock, tuttavia, la presenza di Nico è resa alquanto marginale: lungi dall’affidarle ruoli compositivi, le viene consentito di cantare tre brani: Femme Fatale, All Tomorrow’s Parties, I’ll Be Your Mirror. La voce di Nico connota di scie sulfuree i brani nei quali si cimenta, con il suo impianto gutturale, il suo inglese dal marcato accento teutofono, conferisce all’album un soffio ulteriormente acherontico, da sottosuolo dostoevskijano , febbricoso e inquietante. Non è facile, soprattutto per Lou, condividere il proscenio con una donna di tale grande personalità. Una creatura dionisiaca che con la sua sola presenza sconvolge gli equilibri, inverte il corso delle emozioni, moderna Menade che sparge il seme della follia creativa dovunque si trovi a passare e, soprattutto, sottrae spazi di protagonismo a soggetti dall’ipertrofica dimensione egolatrica… La fine del sodalizio artistico tra Nico e I Velvet, appare, dunque, la logica conseguenza di tale inconciliabile compresenza nello stesso infiammato luogo mentale di creazione artistica. Le rimane, però, la profonda amicizia di John Cale, il quale le regala un harmonium, strumento che Nico utilizzerà copiosamente nei suoi dischi solistici che vedranno il fuoriclasse gallese nei panni di eccellente coadiutore e, talvolta, di prezioso ispiratore.
La traversata dei deserti raggelati della mente
Avuta contezza del proprio valore nel campo della composizione musicale, Nico intraprende la carriera solistica che le procurerà, insieme a una popolarità di nicchia, un convinto, seppur esiguo, pubblico di aficionados, divenendo in breve tempo un’autentica icona di certo genere oscuro, oscillante sul crinale del proto-dark, di certa ascendenza cantautorale, con la consueta voce come saliente da vellutati abissi, testi pregni di esalazioni mefitiche, un clima di indubbia matrice sepolcrale cui fa da contrasto la marmorea venustà dell’artista. Nel 1967, per la Verve, esce “Chelsea Girl”, in realtà composto di brani pensati per la colonna sonora dell’omonimo film di Warhol, e contenente materiale firmato da Lou Reed, John Cale, Bob Dylan, Jackson Browne. Le canzoni si snodano sul nastro scarlatto della voce di Nico con suprema grazia. The Fairest Of The Seasons, Winter Song, la dylaniana I’ll Keep It With Mine, Wrap Your Troubles In Dream, rappresentano solo parzialmente l’enorme potenziale vocale di Nico che si dispiegherà in tutta la sua suggestione di cupa fascinazione infernale solo nel suo primo vero album, che vede la luce per i tipi della Elektra nel 1968: “The Marble Index”. Prodotto e arrangiato dal grande John Cale,il quale vi suona anche la sua celeberrima viola, è un disco di metafisica complessità e dai contorni sincretistici impressionanti. Oltre alla voce meravigliosa di Nico, modulata su miriadi di registri, vi si riscontrano: le armoniose melodie di certi lieder di teutonica ascendenza, arie di mera matrice barocca, frammenti di teatrale foggia brechtiana, dissonanze di vaga reminiscenza dodecafonica, sinuose linee d’impostazione mediorientale, punte di ispido e insanguinato lucore gotico. Un disco spiazzante e affascinante, a un tempo, bruciante di tutte le solitudini dell’animo umano e insieme aperto all’approccio metafisico verso altri mondi. Sin dall’incipit, Prelude, col suono leggiadro del vibrafono, e Lawns Of Dawn con la voce di Nico come sorgente dal greto di fiumi infernali, il registro dell’album si palesa in tutta la sua poetica complessità. Il nitore ancestrale evocato dalla magica viola di Cale, in No One Is Here, apre squarci d’assoluto e suscita visioni di immaginarie e gelide lande desertiche, al sopraggiungere della voce di algida, antartica, ninfa, di Nico. L’aria da recitativo di ascendenza rinascimentale, contrappuntata dal morbido tappeto dell’harmonium, connota poeticamente la voce di Nico, in Ari’s Song, brano dedicato al figlio Aaron, con velature di palpabile emozione che assurgono a trama poetica. Facing Wind propone dissonanze espressionistiche, con il suono straziato dell’harmonium intersecato da frammenti sonori di metallica, irriducibile e deviante durezza.
Julius Caesar (Memento Hodie), rappresenta il vertice creativo dell’album, con l’incrocio soprannaturale di harmonium e viola a creare tensioni di tragico e doloroso ordito sepolcrale, una Passione rivisitata in chiave heideggeriana, oscillante tra due diverse sponde del nulla e solo a tratti mediata con plastica melodia dalla voce sublime di Nico, e ricomposta infine nella quiete marmorea dell’abbandono mortale. L’atmosfera raggelata di Frozen Warnings trova adempimento nel tessuto lapideo di voce e organo, mentre Evening Of Light sembra sgranare il pauroso rosario della fine nell’ingannevole splendore di venefica perla rilucente negli abissi del cuore umano. Roses In The Snow, visione di rose di sangue germoglianti da coltri di neve esistenziale, brucianti del fuoco nero della perdita, e il funebre incedere di rassegnata filastrocca avernale di Nibelungen, chiudono come una pietra tombale un album di grande e oscura fascinazione, avviluppato in atmosfere di irredimibile dolore e come ammantato irrimediabilmente in una rassegnata mistica del nulla. Dopo un fugace ritorno al cinema, ne “La cicatrice intérieure” di Philippe Garrel, cineasta con il quale intreccerà una relazione artistico-sentimentale che si protrarrà per un decennio circa, Nico realizza l’ennesimo capolavoro: “Desertshore”, nel 1970, per la Reprise. E’ un disco glaciale e disperato, una torre d’avorio in mezzo al nulla, con accenti lirici impressionanti, ebbro di melodie di mero annientamento cadenzate in forma di nenia, oscure filastrocche per contemporanei della fine del mondo. A partire dall’algida e spettrale Janitor Of Lunacy, con l’harmonium che tesse trame di perdizione nel vuoto e la voce di Nico che squarcia il velo stesso della speranza, e proseguendo per l’impervio sentiero innevato di The Falconer, rinviante a immagini di tenebrosi manieri medievali persi nei foschi meandri della mente. Vorrebbe, forse, essere un soffio di puro e ancestrale ritorno all’infanzia, ma suona come un lamento d’inenarrabile rovina la cantilena, con carillon, della voce infantile che in francese intona Le Petit Chevalier, mentre la viola elettrica dissonante e acidula in Abschied riporta le atmosfere a cupezze indicibili, con la voce di Nico che penetra in gelido aculeo nel fianco stesso del suono. Afraid recupera dolcezze melodiche improvvise, con un morbido manto pianistico sul quale, come una lieve carezza, si adagia la splendida voce dell’artista. La dura tempra linguistica del tedesco s’imprime nella perduta melodia di un lied d’altri tempi, Mütterlein, mentre su tappeti di note di mero stampo rinascimentale si dispiega, infine, la rovinosa bellezza di All That Is My Own, a celebrare quasi lo spegnersi della fiamma vitale nel mesto incenerire della sostanza umana. Album di rara e devastante bellezza, passato quasi inosservato, in cui si prefigura, quasi come un presagio, l’oscurità diveniente che avvolgerà la vita della meravigliosa Nico, falena che inizia, in tristi volute, a orbitare attorno alla fiamma che le arderà le ali come foglie.
Nella terra di nessuno: l’inizio dello spegnimento delle stelle
Successivamente all’uscita di “Desertshore”, l’artista tedesca si eclissa dalle scene musicali per qualche anno. Trasferitasi a Parigi, compie solo fugaci apparizioni al fianco del caro amico John Cale, in particolare in taluni live-set acustici che confluiscono nel bootleg “En Concert A L’Enfer”. Si esibisce, altresì, sempre al fianco del bardo gallese e, stavolta, di Lou Reed al festival di Bataclan. Il 1974 è l’anno del ritorno in grande stile di Nico. Dapprima nel leggendario disco live del concerto del primo giugno con Kevin Ayers, John Cale e Brian Eno, al Rainbow Theatre di Londra, poi con il suo nuovo album solistico ispirato al titolo del brano eponimo dei Doors, (pare che la valchiria abbia avuto una breve ma bruciante relazione con Jim Morrison) “The End”, per la Island. La vena creativa, tuttavia, comincia a inaridire, pur restando ancora ad alti livelli. Nulla a che vedere con i precedenti capolavori. Il disco, tuttavia, è sempre notevole, vista anche la sontuosa presenza, oltre al fido Cale, anche di Brian Eno e Phil Manzanera, e con brani di notevole impatto come Secret Side, nel quale la voce possente di Nico torna a innalzarsi come la fulgida guglia di una cattedrale gotica, o Valley Of The Kings che sembra prefigurare scene di giostre medievali, con cavalieri dalle lucenti armature con lance profilate contro cieli di porpora. Superba è la versione di The End, ipnotica e lisergica cavalcata in vaste e desolate distese psichedeliche, la voce sciamanica di Nico che tesse trame di puro mistero e incantamento, le tastiere che trapassano i sensi come un molle velluto nero. Espressionismo applicato alla psichedelia, in fumigazioni di tenebra.
Chiude l’album una variazione in chiave gotica dell’inno nazionale tedesco, Das Lied Der Deutschen. Disco di pregevole livello, ancora, ma dalle cui strutture armoniche trapela un qual certo iniziale spegnimento dell’ispirazione folgorante che aveva caratterizzato i due lavori precedenti. A proposito di “The End”: ne uscirà nel 2012 per la Island una versione deluxe, in doppio cd, rimasterizzata che, oltre a riproporre con un suono più limpido l’album originale, nel primo cd, fornirà, nel secondo, varianti dei pezzi che vi erano contenuti ab origine , taluni dei quali eseguiti dal vivo o all’interno delle trasmissioni di John Peel su Radio One, o negli studi televisivi dell’Old Grey Whistle. Versioni live di grande livello come Secret Side, eseguita come John Peel session nel 1971, se possibile ancora più intensa di quella incisa da studio tre anni dopo, con la voce di Nico come indugiante sui limitari di un’oscura foresta; o We’ve Got The Gold, del 1974, sempre da John Peel; o ancora, la stupenda Janitor Of Lunacy nella quale l’harmonium si appropria di ogni spazio sonoro possibile e la voce di Nico squarcia il velo del firmamento. You Forgot To Answer, scritta per eternare l’ultimo incontro da amanti con Jim Morrison, risuona come l’ultima eco di un addio in cui le note sono lacrime trattenute sull’abisso cigliato delle palpebre, e una versione intensissima e tragica di The End, chiudono la parentesi riguardante le John Peel Sessions. Un’altra versione di Secret Side all’Old Grey Whistle, programma televisivo musicale della BBC, del 1975, una sentita interpretazione di Valley Of The Kings, e due splendidi tasselli estrapolati dal concerto al Rainbow Theatre di Londra del Primo giugno del 1974, Das Lied Der Deutschen, l’inno nazionale tedesco riletto in chiave psichedelica, e ancora The End, suggellano un doppio cd che se assume un valore documentario del percorso artistico di Nico, nulla di decisivo aggiunge alla sua fulgida e tormentata carriera.
Notturno con schianto di farfalla
Ancora un periodo di lontananza dalle scene musicali, costellato da gravi problemi di tossicodipenza, mentre intorno a lei il nascente movimento dark germoglia in cupa efflorescenza conferendole i panni dell’icona. Non a caso, la regina del genere, Siouxie, la vuole con sé ai suoi concerti. Nel frattempo, il sodalizio artistico e sentimentale con Garrel le assicura la presenza in diverse pellicole del cineasta transalpino. Il ritorno alla musica dall’ingresso principale, tuttavia, avviene soltanto nel 1981, allorché vede la luce, per i tipi della Cleopatra Records, “Drama Of Exile”. Diciamolo subito: un disco nient’affatto memorabile. Il suono è totalmente diverso, con lievi tocchi di elettronica, più fiacche e ordinarie le atmosfere, venate qua e là, ancora, di oscure nervature violacee, ma nel complesso alquanto deludenti. Unici episodi degni d’un certo rilievo sono da considerare la leggiadra architettura di Purple Lips, con intarsi di chitarra elettrica in bella evidenza e la voce di Nico a superbi livelli; la bella cover di I’m Waiting For The Man, scritta da Lou Reed per i Velvet Underground; la classica ballata psichedelica di Orly Flight; l’altrettanto pregnante versione di Heroes del Duca Bianco, David Bowie, che chiude un disco appena sufficiente, privo del fuoco creativo del periodo aureo, quantunque abbia l’effetto di porre Nico al centro del proscenio dark, come madre nobile di quel genere. A ben quattro anni di distanza da “Drama Of Exile”, nel 1985, Nico ritorna in studio per incidere quello che sarà il suo ultimo album, uscito per la Beggar’s Banquet, “Camera Obscura”, inciso con la band Faction. Vi ritroviamo il valoroso John Cale, il quale l’accompagna dal vivo in alcune notevoli performances (benché contrassegnate dalla crescente difficoltà dell’artista tedesca a esibirsi in pubblico, per via dei problemi causatile dalle droghe e dello scivolamento vieppiù irrimediabile in una cupa e devastante depressione) confluite poi su dischi live non facilmente reperibili come “Behind The Iron Curtain” e “Live In Tokyo” . “Camera Obscura”, come per prodigio, ricostruisce dalle fondamenta primigenie una dimensione artisticamente notevole. Certo, la voce di Nico è appesantita, come la sua figura fisica un tempo statuaria, ma i suoni tornano a turbinare nel gorgo infernale della creazione poetica. Un disco algido, come inciso nella freddezza ferale del marmo d’una lapide. La title track, Camera Obscura, che apre l’album, con la voce di Cale a supporto, è programmaticamente esplicativa del tenore complessivo dei brani.
Un clangore di secco metallo, solo addolcito qui da inserti di tromba, che prefigura immagini di inevitabile schianto, la voce, “trattata” all’uranio, di Nico che emerge come da profondità abissali. Stessa traccia di morente splendore si riscontra in Tananore, voce spiegata come un drappo funebre su un freddo tappeto percussivo. Struggente, intensa e poetica la cover di My Funny Valentine, con la voce di Nico che assurge ad altezze di commovente lirismo, splendidamente assecondata da intrecci di piano e tromba. Morbidamente toccata da un lieve velo di tastiere elettroniche è la successiva Das Lied Von Einsanen Madchens, mentre sonorità imprevedibilmente sintetizzate tramano il tessuto di Fearfully In Danger gremendolo di intarsi techno, ipnotismo strumentale non irresistibile scivolante straccamente fino al tardivo affioramento della voce di Nico. Forse il brano più debole dell’intero album. Dal ritmo sostenuto e puntellato da ossessive percussioni è, invece, l’impianto sonoro di My Heart Is Empty, quasi un manifesto, sin dal titolo, della condizione esistenziale di Nico, sempre più affondante nelle gelide acque della solitudine e del distacco dal mondo. L’espressionistica Into The Arena, con incursioni nel post-punk più algido e industriale, e rari frammenti di tromba a mitigarne le atmosfere da cupo inferno metropolitano, e, ancor meglio, la prodigiosa König, estenuata dal morto suono dell’harmonium, che sembra riportare il livello compositivo ai tempi di “Desertshore”, paiono costituire la legittima epitome dell’intero arco artistico ed esistenziale di Nico. Morirà qualche anno dopo, il 18 luglio del 1988, a Ibiza, in conseguenza di una banale caduta dalla bici, per sopravvenuta emorragia cerebrale. Le sue ceneri sono custodite accanto a quelle della madre in un’urna ai margini della foresta di Grünewald. Fulgida divinità sortita dal nulla e al nulla ritornante. Rosa di luce nera sorretta da un troppo debole stelo, angelo rilkiano trafitto da tutte le solitudini e, tuttavia, arcana corolla di splendore fiorente dallo spezzarsi dell’ala.
L’articolo ha una elevazione poetica straordinaria. Non descrive ma pennella, aggiungendo arte su arte. Complimenti!
Mille grazie, cara. Gentilissima. Una figura come quella di Nico non può non essere descritta col linguaggio della poesia. Grazie ancora.