Unreal City Il prog che verrà
In occasione dell’uscita del loro primo album “La Crudeltà di Aprile” abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con E. T. e Francesca Zanetta degli Unreal City, gruppo di Parma dedito ad un prog sinfonico dalle tinte dark, il disco è molto bello, nel sito troverete la recensione, un consiglio: non lasciatevelo scappare, non aspettate che siano gli stranieri ad accorgersi di loro.
L’INTERVISTA
Ignazio Gulotta (Distorsioni Net) - Vorrei iniziare dal nome che vi siete scelto, evidentemente un tributo a T.S.Elliot
E. T. - La “Terra Desolata”, il poema che omaggiamo sia nel nome del gruppo sia nel titolo dell'album, è uno dei più complessi sistemi letterari del 900. Non a caso parlo di sistema anziché di “opera” o “composizione”: la visione del reale che Eliot dà in questo poema è totale e totalizzante, una lente con cui guardare i fenomeni ancora oggi inesplorata. Un approccio al tempo stesso scientifico (quindi oggettivo) e mitologico (quindi soggettivo), permeato da sensi interni, da stati psichici di cui si evince la visceralità. Come in Dante, nella Waste Land gli uomini sono descritti nella loro carnalità, nel loro essere muscoli e ossa, prima ancora che “angeli senza corpo”. L’irrealtà della città moderna, invocata in un momento cruciale del “Sermone del fuoco”, è un ottimo esempio di quello che voglio dire: dapprima irreali sono i rapporti fra gli uomini, la socialità, l’”essere-in-relazione”, poi via via irreale diventa il concreto, la fisicità, le persone, la materia, fino a coinvolgere tutto il reale. Nello scrivere le canzoni del disco, soprattutto da un punto di vista testuale, ho cercato di adottare questa “filosofia” di analisi dei fenomeni, se vogliamo in molti casi affine al metodo psicoanalitico.
Qual è la vostra formazione musicale? E quali sono i dischi e i musicisti più importanti per voi?
Francesca Zanetta - I background del gruppo sono abbastanza differenti: Emanuele ha iniziato studiando pianoforte classico, per poi passare all’organo Hammond e approdando quindi al rock. I tastieristi per lui di riferimento sono senza dubbio Wright, Emerson, Wakeman, Jarrett, Smith e fra gli italiani, Premoli, Corradi, Nocenzi e Pagliuca. Io ho iniziato suonando la chitarra classica, ma sono passata in poco tempo all’elettrica, ascoltando Pink Floyd e Camel: il lirismo di quei suoni è fenomenale, e di certo lo preferisco rispetto a certe ostentazioni di tecnica che ritengo un po’ gratuite e fini a se stesse. Federico, che ha una formazione più moderna, riesce a coniugare nel suo modo di suonare la passione per un drumming preciso e tecnico tipico della modernità e quella per un suono più greve e naturale, istintuale quasi, etichetta batteristica dei seventies. Non a caso i suoi idoli sono al tempo stesso Bill Bruford, Martin Axenrot, Joe Morello, Marco Minneman, Mike Portnoy. Francesco, il bassista, ha un approccio più naturale verso lo strumento, venendo dal blues e da un rock un po’ più sanguigno.
Che musica ascoltate di autori di questi ultimi anni?
Emanuele - Fondamentalmente siamo affascinati da qualsiasi cosa si imponga come “originale”. Il rock non ha bisogno di crepuscoli, ad esso servono rivoluzioni. Poco importa se la rivoluzione viene attuata guardando al passato (e per citare qualcosa in merito, mi viene in mente l’ultimo album di Steven Wilson, “The Raven that Refused to Sing”). Servono artisti che riescano a servirsi di questo periodo di enorme depressione artistica per costruirvi le fondamenta di un nuovo modo di vedere e fare musica. Solo così, attraversando questo momento di “κρίσις” la depressione si fa decadenza, diviene costruttiva. Vi sono segnali che ciò stia accadendo, penso al già citato Wilson solista, ma anche ad alcuni esperimenti musicali più avanguardistici come il progetto Blackfield o Storm Corrosion o il nuovo terzetto Jakszyk/Fripp/Collins.
Voi siete giovanissimi e fate prog, un genere a cui è molto legata la mia generazione che nei primi settanta aveva intorno ai venti anni, ma fra i vostri coetanei come credi possa essere accolta la vostra proposta?
Francesca - Non possiamo che prendere atto di ciò che vediamo nei contesti live. Premetto che da questo punto di vista il gruppo è propenso per un cambio di rotta fondamentale rispetto a quello che sembra l’andazzo del progressive rock nel nostro paese: noi vogliamo proporre il nostro genere anche nei contesti di musica dal vivo più impensabili, e all’apparenza poco attinenti. Negli ultimi anni abbiamo suonato in molti contesti “atipici”, e il copione è stato il più delle volte sempre il medesimo: dopo qualche minuto di esitazione, anche il pubblico più giovane apprezza, viene affascinato dal genere che proponiamo, riesce a percepirlo come qualcosa di “diverso” rispetto a quello che ascolta solitamente. Non è la prima volta che un nostro ascoltatore, magari molto giovane, ci dice di essersi procurato “In The Court Of The Crimson King” dopo un nostro concerto, e non credo ci sia una cosa che ci renda più orgogliosi.
Due anni fa ho recensito il vostro più che promettente ep, adesso quei brani li riproponete nel vostro primo album, ma con i testi in italiano, perché questa scelta e quali problemi ha creato questa operazione?
Emanuele - Ho deciso di riscrivere in italiano tutti i testi dell’album su consiglio del nostro direttore artistico, Fabio Zuffanti. All’inizio ero assai restio a questa scelta, in quanto fondamentalmente non mi sentivo all’altezza di riuscire a mettere in musica una lingua come l’italiano (che per sua natura, come spiegava alla perfezione Franz DiCioccio nel suo “PFM: due volte in una vita” è molto meno incatenabile con le briglie di un ritmo “rock”). Con il senno di poi posso dire che si è rivelata una scelta estremamente vincente. L’italiano ha dato modo di esporre idee che in inglese non avremmo saputo rendere, così come le innumerevoli citazioni letterarie e filosofiche presenti nei testi.
Da dove traete ispirazione per le vostre canzoni? Nasce prima la musica o il testo?
Emanuele - Per questo disco, la fonte di ispirazione fondamentale, per quanto mi riguarda, è stato il “controtransfert” rispetto all’analisi dell’oggetto di studio, le impressioni soggettive “a caldo” dell’argomento di cui si parla. Questo direi si è configurato come il propulsore fondamentale alla stesura dei brani. Si studia qualcosa e subito se ne carpiscono i messaggi fondamentali, si mescolano, si confondono l’un l’altro: filologicamente il risultato può far torcere il naso, ma a mio avviso la resa estetica ne guadagna. Nel brano “Ecate (Walpurgisnacht)” vi sono innumerevoli citazioni accostate e sovrapposte: si parte con lo scenario volutamente Lovecraftiano del paese “dannato”, del male che coinvolge e assume le sembianze di un’intera comunità, ma il riferimento è anche al bucolico ambiente de “Il funerale” o de “La volpe” di Angelo Branduardi o a certo cinema espressionista tedesco di inizio 900, di cui ho cercato di esprimere l’intimità del kammerspiel. Proseguendo si entra poi nel “vivo” della situazione, al cospetto del soggetto proprio della canzone, cioè Ecate Trivia, divinità psicopompa dai tre volti, che ho cercato di caratterizzare, anche solo per un accenno, nelle sue differenti sembianze. L’ultimo verso è un riferimento ad una frase della medium e spiritista italiana Eusapia Paladino, che parla della sua percezione della morte come di “un diadema di vento freddo”.
I testi sono pieni di riferimenti colti si vede che dietro ci sono studi e interessi verso la filosofia, la letteratura, la psicoanalisi, il mondo classico greco e latino, qual è il retroterra culturale che ci sta dietro?
Emanuele - Il riferimento principe del disco, dal mio punto di vista, è la grecità presocratica e più in particolare il porre al centro del palcoscenico la struttura fondante delle cose e il tempo che la muta, che la corrompe. Il discorso è talmente denso che non è stato difficile, per noi, elaborarlo e osservarlo alla luce delle nostre passioni filosofiche e psicologiche, come la psicoanalisi (soprattutto nei brani “Dove la luce è più intensa”, in cui spiccano riferimenti alla fase dello specchio di Lacan e alla coscienza collettiva di Jung, e “Dell’innocenza perduta”, in cui il principio fondamentale è mutuato dal Bowlbly di “Attaccamento e perdita”) o certo hegelismo e platonismo che si intravede qua e là. Letterariamente parlando la canzone più “densa” di riferimenti è senza dubbio “Catabasi (descensio ad inferos)” in cui ho cercato di caratterizzare questo protagonista faustiano con differenti fonti: Goethe e Marlowe su tutti, ma anche l’Arrigo Boito del “Mefistofele” o, per cercare un riferimento moderno, il Peter Hammill di “Gog-Magog”, di cui rimane il riferimento alla Normandia e ai “poppy fields of France”, che per ragioni di metrica in “Catabasi” diventano “campi di grano”. Sulla romanità abbiamo giocato nella canzone “Atlantis” a trasporre il classico mito platonico della caduta di Atlantide in un ambito di motivazione critica tipicamente romano (l’avidità di danaro e la sessualità, cioè la corruzione del corpo ma vista da un punto di vista squisitamente sociale-politico, spogliata dei significati metafisici dell’orfismo greco), come suggerisce anche il sottotitolo: “conferendis pecuniis”.
Parlatemi un po’ del vostro incontro con Fabio Zuffanti e del ruolo che ha avuto in questo vostro debutto.
Francesca - Abbiamo contattato Fabio ad Agosto dello scorso anno, inizialmente per avere un parere di un esperto e appassionato al genere sul nostro primo EP omonimo. Non eravamo ancora a conoscenza dei progetti di Fabio per Mirror Records, ed è stato lui a proporci la collaborazione, in cui ha rivestito il ruolo di direttore artistico. Per tutto il periodo di Gennaio 2013 il gruppo si è trasferito in un appartamento a Genova per le registrazioni. Fabio, insieme a Rox Villa, sono stati due grandi maestri, per noi: ci hanno accompagnato con pazienza in questo percorso discografico, consigliandoci e trasmettendoci la loro esperienza e passione.
L’ottima resa del suono del vostro disco è una componente fondamentale nella riuscita dell’opera, come è stato lavorare con Rox Villa?
Francesca - Rox è un professionista estremamente attento e competente, nei suoi progetti ci mette davvero tutto sé stesso, e questo emerge dai lavori che produce: sembra apporre una sorta di firma ai dischi su cui lavora, anche grazie alla invidiabile paletta di effettistica e strumentazione del suo Hilary Studio, in cui abbiamo registrato. Per quanto riguarda la resa sonora, vorremmo anche ringraziare Sandro Ferrini, che ha curato il mastering del disco nel suo studio a Livorno.
Nella mia recensione vi ho accostato agli Atomic Rooster, vi riconoscete in questo riferimento?
Francesca - Assolutamente. Io credo che ci sia molto dei Rooster nel nostro lavoro, a cominciare dalle tematiche molto più “dark” rispetto alle solite “fatine del progressive rock” (per citare una frase di Fabio Zuffanti), ma anche su certi settaggi dell’Hammond più aggressivo e di effettistica su Rhodes (mi vengono in mente in particolar modo “Death walks behind you” e “Breakthrough”). Chitarristicamente parlando, anche il gusto per i riff “granitici” dei Rooster traspare in alcune composizioni, così come la ricercatezza di certe linee di batteria (penso a brani come “Black Snake”).
Veniamo alle tematiche del disco, il divenire che corrompe, che fa venir fuori le forze ctonie e ancestrali, una visione cupa del futuro visto come il trionfo di quella che i greci chiamavano hybris, fa così paura l’avvenire? E quanto questa visione è influenzata dalla realtà contemporanea?
Emanuele - Il riferimento ad Eraclito di Efeso è fondamentale nel disco, non solo relativamente al conosciuto Panta Rei, che determina in modo costante il divenire delle cose (già ripreso, peraltro, dai Genesis di “Firth of fifth”), ma anche riguardo ai limiti invalicabili del kosmos (mi riferisco in particolar modo al frammento 94: “Il sole mai dovrà oltrepassare i limiti del suo spazio, altrimenti le Erinni, ministri della giustizia, lo distruggerebbero”). La questione sul limite che raggiunge la corruzione è particolarmente fondamentale nella suite finale che chiude il disco, “Horror Vacui”, mescolata ad una sottesa critica di stampo marxista e marcusiana alla società del capitale e al feticismo patogeno che contraddistingue la società borghese moderna. Qui l’Hybris, la colpa fondante, l’affronto ultimo, è l’assoluta disumanizzazione dell’atto omicida, se vogliamo in un’ottica più affine alla cristianità che alla grecità. Fin qui può sembrare che questi giudizi qualitativi sulle pulsioni (presenti anche in “Atlantis”) poco si confacciano ad un’ottica psicoanalitica, tuttavia il finale suggerisce un’interpretazione alternativa, che tutto sommato può dirsi concorde con le conclusioni del freudiano “il disagio della civiltà”.
A parte la musica, quale attività svolgono oggi i quattro Unreal City?
Due componenti sono psicologi o psicologi in formazione, Emanuele e Federico. Emanuele è laureato in psicologia con una tesi su Wittgenstein e Freud e sta iniziando la specializzazione in psicologa clinica all’università Bicocca di Milano, essendo indirizzato a diventare psicoanalista di orientamento freudiano lacaniano. Federico sta iniziando ora il corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche, ed è più orientato verso la psicologia comportamentale, per la quale ha creato anche un corso privato, fondando l’associazione ADE Group a Modena, per la ricerca in ambito psicologico comportamentale. Francesca è laureata in scienze biologiche e specializzata in neurobiologia all’università di Pavia. Francesco sta giusto in questo periodo dando l’esame di maturità a Parma e si iscriverà alla facoltà di Informatica. Sia Emanuele che Francesca hanno intenzione di prendere una seconda laurea in filosofia all’università di Pavia.
Non ci resta che ringraziare gli Unreal City per questa bella e interessante intervista che ci aiuta a meglio comprendere la loro musica
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