75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – 3a parte
4 - 5 - 6 Settembre 2018
Da Jennifer Kent ci si aspettava molto e molto di più, memori dello splendido esordio di due anni fa con l’horror “The Babadook”: “The Nightingale”, la sua opera seconda delude profondamente, ancora di più quando ci si accorge che non è -semplicemente- un brutto film, ma un film sbagliato. Nella Tasmania del 1825 una giovane donna ex galeotta vive da tre anni, insieme al marito e alla figlia neonata, al seguito di un colonnello in attesa che questi gli rilasci il foglio di via, avendo abbondantemente scontato la pena. Ma l’uomo è spietato e senza scrupoli: dopo numerose e ripetute violenze, in seguito alla frustrazione di non aver ricevuto una promozione, spara al marito di lei e con due soldati uccide la bambina. Inizia così un inseguimento folle e bestiale immerso nell’aspra vegetazione del luogo, che inevitabilmente finirà nel sangue. The Nightingale parte benissimo: nelle intenzioni della Kent, avrebbe dovuto essere una storia che racconta il prezzo umano della violenza, dai connotati fortemente politici (sullo sfondo c’è il colonialismo inglese, la rabbia irlandese e lo sterminio degli aborigeni). Ma nei risultati, dopo una prima mezz’ora che mette in scena tutti gli elementi necessari per un classico revenge-rape movie, il tutto si risolve in un’estenuante corsa nella giungla, dove ogni strumento narrativo viene diluito nella lunghezza spropositata di un’opera che, se sfrondata di un buon minutaggio, sarebbe sicuramente risultata più incisiva. E invece la Kent si perde ad inseguire i moti della sua protagonista, abbandonandosi troppo spesso ad una pornografia della violenza che, dopo un po', diventa stucchevole, di maniera e quindi superflua.
Di tutt’altro spessore i due film orientali in Concorso e Fuori Concorso, “Ying (Shadow)” di Zhang Yimou e “Zan (Killing)” di Shinya Tsukamoto. Il primo è una sorta di splendida summa del cinema wuxiapian a cui Yimou più di una volta ha attinto a piene mani: stracolmo di invenzioni visive al limite dell’onirico, ha l’andamento maestoso e l’incedere elegante delle opere migliori del regista cinese, che desatura i colori immergendo i suoi personaggi in uno splendido quasi bianco e nero, fino alla splendida colata di lava grigia finale. Giocando anche, con raffinatezza, con il tema del doppio -le Ombre, nella Cina dei Tre Regni, erano dei fedeli servitori di re e generali, i quali vivendo nel costante timore di essere uccisi si facevano sostituire da questi stunt-man ante litteram- che si rispecchia nelle suggestioni della duplicità dell’esistenza, divisa fra Ying e Yang.
“Zan”, invece, è figlia di uno degli autori più controversi e potenti del moderno cyberpunk: racconto violento e ferino, mette in scena le macerie sotto le quali giace il perduto senso di identità personale, distrutto da una forma di alienazione.
Ora ipercinetico, ora meditativo, Tsukamoto si muove con maestria fra gli opposti e restituisce un’opera che vive tra pulsioni autodistruttive e trasformazioni mentali.
Altro grande risultato è quello di “Una Storia Senza Nome”, di Roberto Andò: parte da una fantasiosa ricostruzione del furto della Pietà caravaggesca nella Palermo del 1969 fino ad arrivare ad intrecciare mirabilmente verità e menzogna, in un racconto deliziosamente metacinematografico. La finzione scenica cortocircuita continuamente il procedere degli eventi: ora precedendola, ora posticipandola con la ricostruzione cinematografica. “Una Storia Senza Nome” parla della doppia identità della vita e di ognuno di noi, regalando ad ogni suo personaggio una doppiezza che restituisce un mistery tutto italiano che riesce anche a volare leggero sull’inestricabile groviglio di politica, potere e mafia.
Infine, un’edizione della Mostra più importante del mondo fresca e felice, forte di un impressionante numero di capolavori e una selva di opere bellissime: vedremo poi come l’assegnazione dei premi riuscirà a sovvertirne l’ordine.
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