Tom Petty (And The Heartbreakers) IL SEMINOLE BIONDO CHE INSEGUIVA IL SOGNO DI ELVIS (PARTE PRIMA: 1970-1987)
1950 - 2017
I N T R O
Tradito da un attacco cardiaco a Santa Monica (CA) il 2 Ottobre 2017...neanche venti giorni prima dei 67 anni, dopo aver concluso la tournée celebrativa dei quarant’anni “on the road” con il gruppo che, ironia della sorte, era stato battezzato “Gli Spezzacuori”. Al termine del tour la dichiarazione dell'artista era stata: “probabilmente sarà il nostro ultimo tour”.
Chissà se Thomas Earl Petty, da Gainesville, FL, dove era nato il 20 ottobre 1950, si sarà mai domandato quanto cordoglio avrebbe suscitato la sua dipartita sui social, persino in un paese come l’Italia, dove aveva sì uno zoccolo duro di fans, ma nel quale non godeva di un seguito paragonabile a colleghi del calibro di Bruce Springsteen, per fare un nome “che conta”. Eppure, grazie a un’accorta gestione dell’immagine in epoca non sospetta, addirittura pre MTV (fu uno dei primi a produrre video con una sceneggiatura), era arrivato a lasciare un’impronta persino in Italia (quante volte avrete sentito qualcuno parlare del “video del Cappellaio Matto”?), a significare che le sue canzoni “arrivavano” comunque, indipendentemente dal suo status di anti-star. Tutto era iniziato quando il piccolo Tom, fino a quel momento non particolarmente impressionato dallo stardom e dalla scena rock and roll, all’età di undici anni fu portato dagli zii su un set allestito a poca distanza da casa per assistere alle riprese di “Follow That Dream”, uno dei tanti film che vedevano protagonista l’antesignano delle icone pop: Elvis Presley, The King. Il fascino emanato da Presley, che si fermò qualche secondo a parlargli prima di sparire nella sua roulotte assediata da ragazze in delirio, lo colpì in maniera indelebile: anni dopo, divenuto a sua volta un artista affermato, Tom Petty ricorderà aspetti di quell’incontro che avevano a che fare con le movenze, il sorriso, lo sguardo, il look di Elvis. Fu dunque proprio un’immagine a convincerlo ad ascoltare i dischi che quel personaggio aveva realizzato, scoprendo un tesoro inestimabile per un ragazzino che aveva appena deciso di diventare una rockstar.
1. I Mudcrutch: l’illusione
Dedicandosi inizialmente al basso e al canto in una teoria di band adolescenziali (Sundowners, The Epics) formate con Tom Leadon (fratello di Bernie, poi famoso con gli Eagles assieme a Don Felder, commesso nel negozio di strumenti nel quale lavorava anche Petty) e al batterista Randall Marsh e già piuttosto note a livello locale ed essendo sempre più attratto dalle sonorità portate in dote dalla British Invasion della seconda metà dei sixties, il Nostro cerca un chitarrista che dia sostanza al sound che ha in mente. Quando si presenta un allampanato tizio di nome Mike Campbell, Petty e Leadon gli chiedono se sia capace di suonare Johnny B. Goode. Mike ci rimugina un attimo, poi risponde: “Penso di potercela fare” e squaglia letteralmente le orecchie dei due Tom: “Ok, ok: sei nella band!”. Reclutato Benmont Tench, pianista di vaglia, cambiato il nome del gruppo in Mudcrutch (segnatevi questo nome, lo ritroveremo più avanti), creatasi una solida reputazione di live band spesso dividendo il palco con amici emergenti come i Lynyrd Skynyrd, ma considerando il Sud non adatto al loro sound, e cercando notorietà sull’onda del successo che Bernie e Don Felder stavano avendo con gli Eagles, Tom si reca nel 1970 a Los Angeles con un nastro di sue canzoni suonate dal gruppo in cerca di un contratto. Stupefatto dalla densità di etichette presenti in loco, si mette a suonare a tutte le porte lasciando copie del nastro: dopo un paio di giorni si fa avanti la London promettendo il sospirato accordo, ma appena giunge dai suoi pards l'artista viene raggiunto da una comunicazione di un impresario inglese, Danny Cordell, titolare della Shelter Records, etichetta che gravitava attorno alle attività musicali di Leon Russel (famoso per le collaborazioni con Delaney & Bonnie, Joe Cocker, Eric Clapton e all’epoca impegnato con George Harrison, Dylan e Ringo Starr nel" Concerto Per Il Bangladesh") e che aveva sotto contratto Phoebe Snow, J.J. Cale e il bluesman Freddie King. Cordell lo convince a rifiutare l’offerta precedente e a registrare subito un singolo. Detto fatto: i ragazzi registrano Depot Street con aspettative altissime, ma il singolo non decolla e le session vanno a rilento. Petty, tuttavia, ha un ricordo positivo del periodo perché ogni sera si ritrova nell’ufficio della Shelter e Danny gli fa ascoltare di tutto, dal r&b di New Orleans al reggae, dal country al jazz: il momento più formativo a livello professionale. Ma le registrazioni si trascinano, Tom è sempre più lontano dal suono che ha in testa e sempre più frustrato, finché decide di abbandonare l’idea di un disco dei Mudcrutch e propone a Campbell di partecipare a un progetto solista.
2. Breakdown: la nascita degli Heartbreakers
Una sera, all’improvviso, Leon Russell si fa vivo e propone a Petty di passare a prenderlo per provare a scrivere qualcosa assieme. Girano tutta la notte a bordo della Rolls Royce di Russell che ne approfitta per studiare quel ragazzo biondo dallo sguardo limpido e i modi da gentiluomo del Sud: c’è da immaginare che Danny Cordell non fosse estraneo all’iniziativa, visto che poco dopo Tom si convincerà a trasferirsi a casa di Leon per iniziare le sessions di scrittura, alle quali viene invitato anche Mike Campbell, che Danny vede quale ideale partner compositivo di Petty (e i risultati gli daranno ragione). Vengono allestiti uno studio e una band di professionisti di altissimo profilo: Al Kooper, Jim Gordon, Donald “Duck” Dunn, Emory Gordy. Tutto sembra procedere nel migliore dei modi, ma Tom non si sente a proprio agio nel comunicare con questi session men così professionali, compassati, ai quali deve chiedere cosa vuole ottenere ma dai quali non riceve il feedback che si instaura in una dinamica di gruppo. Nel frattempo Benmont Tench si sta leccando le ferite e decide di realizzare dei demo per un progetto solista, avendo incontrato altri musicisti di Gainesville emigrati a L.A. sull’onda del successo di Felder e i Leadon: una sezione ritmica composta dal batterista Stan Lynch e Ron Blair al basso, alla quale Ben pensò di affiancare (siamo nel 1975) la chitarra di Campbell e qualche nota di armonica di Petty. Ed ecco che, grazie a due differenti progetti solisti, gli Heartbreakers prendono forma spontaneamente e Tom comincia a scrivere a getto continuo, elettrizzato dal suono che scaturisce dalla band così assestata: i brani scaturiscono con velocità impressionante, spesso scritti direttamente in studio, come Breakdown, il primo vero successo tratto dal primo album, intitolato semplicemente “Tom Petty And The Heartbreakers”, pubblicato il 9 novembre del 1976. Il successo, però, ancora una volta, non fu immediato: il disco aveva un suono che non aveva nulla a che fare con le mollezze West Coast che riempivano le radio, né con il southern rock o la scena di Detroit, ma era anche distante dall’art rock o dall’urban funk che imperavano a New York. La copertina, poi, con quel biondino dallo sguardo vago, intabarrato in uno Schott e con una cartucciera a tracolla! Ci vorrà una tournée in Gran Bretagna (finalmente!), dove i nostri sbarcano mentre i Sex Pistols pubblicano "Never Mind The Bollocks" e si ritrovano subito a loro agio nel circuito New Wave (il che li farà scambiare inizialmente per Punk rockers): il conseguente successo del singolo AnythingThat’s Rock‘N’Roll li proietterà dal circuito dei club a quello dei grandi teatri e il rientro in patria sarà trionfale, con il singolo Breakdown stabilmente nei Top 40 e dichiarazioni di stima da parte di colleghi ammirati, tra i quali si narra di un Roger McGuinn che dichiara di aver ascoltato American Girl mentre era in coda sulla sua convertibile e di essere sceso per cercare una cabina e chiamare la radio che la trasmetteva per chiedere chi avesse fornito loro quel nastro, convinto che si trattasse di un pezzo dei Byrds sottratto da qualcuno durante una session della quale non aveva memoria (il che fa comprendere in quale stato di alterazione si svolgessero spesso le registrazioni dei Byrds).
3. Stardom! Anche i perdenti sono fortunati, a volte
A meno di sei mesi di distanza dal precedente, la Shelter pubblica “You’re Gonna Get It!”, disco che diventa subito d’oro, trascinato da Listen To Her Heart e I Need To Know, due singoli micidiali, ma il successo comporta qualche problema: il manager del gruppo, Tony Dimitriades, si rende conto che Danny Cordell ha fatto sottoscrivere a Petty un contratto con condizioni economiche ridicole, che penalizzano l’artista a tutto vantaggio dell’etichetta e del suo proprietario, il quale è nel frattempo incappato in guai finanziari. Il giocattolo si è rotto, l’etichetta “salta” e subentra la MCA. Billy Roberts, manager di Neil Young, Joni Mitchell e una pletora di artisti californiani, affiancherà d’ora in poi Dimitriades e consentirà a Tom di ridiscutere le proprie condizioni. Ma un altro cambio importante avviene in cabina: Jimmy Iovine, un giovane produttore che si è fatto le ossa quale ingegnere del suono su produzioni importanti ed epocali quali "Born To Run" e "Darkness On The Edge Of Town" di Bruce Springsteen e aveva realizzato una grossa hit quale Because The Night di Patti Smith, subentra alla console e produce “Damn The Torpedoes”, l’album che consacra definitivamente la ditta, disco magnifico, una sequenza di canzoni impressionanti (Refugee, Don’t Do Me Like That, Even The Losers, Louisiana Rain, Here Comes My Girl) che sono il frutto di due anni di tensioni e patimenti legali ma anche del desiderio di farcela, di volontà di raggiungere la meta. Da qui in poi, la carriera di Tom Petty sarà luminosissima, gli Heartbreakers si dimostreranno una formidabile macchina da guerra durante i concerti e saranno un’apprezzata backing band (benché mai accreditata con quel nome: i credits saranno per i singoli componenti) per molti solisti desiderosi di incidere dischi dal suono pienamente rock ma ricco di sfumature (come il primo album solista di Stevie Nicks, che contiene un regalo a firma Petty/Campbell del calibro di Stop Draggin’ My Heart Around, smash hit a livello planetario). Tutto viaggia a velocità supersonica, in tre anni escono “Hard Promises” (contenente una delle più belle canzoni di Tom in assoluto, The Waiting) e “Long After Dark” (foto a sinistra), con il video della bellissima You Got Lucky in heavy rotation su MTV da noi più volte mandato in onda da Carlo Massarini nel suo programma TV "Mr. Fantasy". La band è sempre in tournée, Ron Blair non regge il ritmo e abbandona la baracca, nel secondo di questi album c’è già Howie Epstein e Tom comincia a desiderare un po’ di quiete: gli mancano gli anni della Florida.
4. Il Cappellaio Matto e i ribelli con l’accento del sud
L’ambizione non è mai mancata al Nostro. Nel 1983 si prende una pausa e comincia a meditare di incidere quel disco solista che insegue dai tempi del disfacimento dei Mudcrutch, solo che lo concepisce come un doppio, una specie di “Blonde On Blonde” diviso in due parti, una più acustica e una più à la page, per la quale pensa di coinvolgere Dave A. Stewart, essendosi innamorato del suono dei dischi degli Eurythmics. Tom vaga tra la Florida e la Georgia, viaggia in auto da solo e ogni tanto si ferma per buttare giù una porzione di testo o una melodia, a seconda dell’ispirazione, ma si rende conto che le canzoni hanno comunque bisogno del suono degli Heartbreakers: ogni volta che ne ha una pronta li chiama, incide, fa ascoltare a Stewart, definitivamente coinvolto nel progetto, tanto che scrivono assieme un capolavoro (Don’t Come Around Here No More, quella del famoso video del Cappellaio Matto di Alice Nel Paese Delle Meraviglie già citato in apertura) e un funky non proprio in cima alle preferenze dei fans come Make It Better (Forget About Me) che non sembra integrarsi al meglio in un disco altrimenti ricco di spunti e belle canzoni (Rebels, Southern Accents, The Best Of Everything), per la prima volta sottolineato spesso da una sezione fiati. Il disco, "Southern Accents" (foto a destra), non sarà mai doppio, anche perché Petty, frustrato per come non riesce ad integrare le due parti che ha in mente e per gli arrangiamenti che non sempre lo soddisfano, tira un pugno nel muro dello studio fratturandosi la mano sinistra, che per otto mesi gli impedirà di suonare la chitarra e rischierà di fargli terminare la carriera anzitempo. La tournée di supporto all’album vedrà Tom insistere sui brani più criticati (vuole dimostrare che si tratta di canzoni che reggono l’impatto live, che hanno un senso in un certo contesto), ma si rivelerà un successo formidabile, grazie all’idea di portare la sezione fiati che oltre a colorare le esecuzioni delle canzoni più recenti, come sul disco, arricchirà le riproposizioni dei brani più conosciuti, dando loro una nuova veste. Tournée trionfale, pubblicazione di un doppio dal vivo, “Pack Up The Plantation: LIVE!” (aperto e chiuso dai giusti tributi alle proprie influenze: i Byrds di So You Want To Be A Rock & Roll Star e Needles And Pins dei Searchers sono l’uno-due iniziale, mentre il gran finale è affidato a Don’t Bring Me Down degli Animals e Shout! degli Isley Brothers, prima del congedo folkie di Stories We Can Tell, dal repertorio di John Sebastian). Tom, all’apice del successo, ci dice di prendere in mano una chitarra e imparare da chi ha creato tutto, da chi quel suono l’ha inventato: un sincero atto di umiltà e devozionale nei confronti dei suoi ispiratori, ai quali riconosce di aver aperto la via che lui stesso sta percorrendo. E, dato che l’immagine vuole la sua parte, il disco viene bissato da una versione video (VHS) nella quale i nostri eroi sfoggiano look (giacche, cappelli, panciotti, occhiali colorati) e strumenti: prima che il continuo cambio di chitarre diventasse un must anche per la più sfigata delle cover band, ricordate qualcuno che in quegli anni ne facesse così ampio uso?. Roba da star, appunto.
5. Averne abbastanza ed essere in caduta libera
Benché non apprezzato totalmente dalla critica, l’album dal vivo rivela le indubbie doti degli Heartbreakers. Nello stesso periodo, un Dylan sempre più confuso circa il suo status di icona e l’indirizzo da dare alla propria musica, aveva appena pubblicato un disco controverso come "Empire Burlesque" facendo il percorso inverso: scendeva a patti col suo essere una rockstar (si presentava addirittura in copertina con sguardo ammiccante e giacca Armani “Miami Vice style”) e tentava la scalata alle classifiche pop. Stancatosi subito del gioco, Sua Bobbietudine scopre la voglia di tornare in tour con una backing band e ascolta gli Heartbreakers: di meglio, in giro, al momento non ce ne sono. Quel Petty, poi, è un caro ragazzo, uno col quale Bob si trova a suo agio, e il 1986 scivola via in giro per il mondo (Italia compresa, prima volta di Tom Petty a casa nostra), accompagnando cotanta leggenda ma, più spesso, rubandogli la scena nella pausa dedicata alla sola band. Ma qualcosa si rompe di nuovo: l’estenuante attività live e le inevitabili frizioni personali che comporta, chiedono pegno, e Petty decide di dare uno stop e pensare al famoso dico solista. Prima, però, prepara il terreno con l’uscita di “Let Me Up (I’ve Had Enough)” (1987), titolo eloquente e copertina che riporta per la prima volta i volti di tutti componenti della band, anche se in un suggestivo collage che rimanda a una sorta di identificazione del gruppo in un’unica entità. Il disco contiene collaborazioni con Dylan (Jammin’ Me) (Bob Dylan e Tom Petty, live nel 1986, nella foto a sinistra) e brani inusuali, diversi da buona parte del resto del catalogo, ma contiene comunque dei gioiellini (Think About Me, It’ll All Work Out, la title track, rollingstoniana come la già citata Jammin’ Me), ma risulta davvero il lavoro di qualcuno che non ce la fa più (emblematica la foto interna, ritraente un aereo da turismo precipitato in una piscina). Come non bastasse, a ridosso della pubblicazione dell’album, la casa di Petty va a fuoco portandosi via tutti i suoi averi: lui, la moglie e i figli si salvano per un pelo. Da questo evento molto increscioso si apre un nuovo capitolo per l'artista.
(continua...)
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