Pietro Romano Matarrese Flussi emozionali
INTRO
Abbiamo incontrato ed intervistato il chitarrista e pittore barese Pietro Romano Matarrese in occasione dell’uscita su CD di “Drink”, il suo secondo lavoro musicale registrato in perfetta solitudine ed in bassa fedeltà, ascoltandolo in anteprima insieme a lui. Drink riprende il discorso del precedente “Upho” esattamente dove si era interrotto, corroborandolo con nuove illuminate proiezioni chitarristiche westcoastiane ancora più marcate ed affascinanti. L’orgoglio isolazionista di Piero Romano Matarrese ha partorito un nuovo piccolo prezioso capolavoro, e lui è un artista di cui il panorama musicale pugliese deve andare fiero. Abbiamo dissertato a tutto tondo di musica e pittura. Buona lettura
L’INTERVISTA
Pasquale Wally Boffoli (Distorsioni) - Ciao Piero. Allora iniziamo dall’attualità: il tuo secondo nuovo disco si intitola “Drink” ed esce a tre anni di distanza dal primo “Upho”, come produzione indipendente. Upho era un acronimo e stava per? Questo perché hai deciso di chiamarlo Drink?
Pietro Romano Matarrese - L'acronimo Upho vuol dire ‘Unidentified Playing High Object’, cioè io come oggetto artistico non ben identificato; Drink è invece un invito a un brindisi ben augurante, magari con un cocktail musicale.
Cosa è successo Piero in questi tre anni da Upho nella tua vita e nella tua musica?
Nonostante la mia vita sia stata sempre articolata ed impegnativa, questi anni hanno visto un “incremento” delle due qualità, anche per l'età, visto che tra poco compirò 65 anni. La mia live-music non è cambiata, ma ne è cambiata la visione, nel senso che è più nitida,dopo la esperienza del primo disco.
Drink è un lavoro più imponente, ce ne parli? E’ cambiato qualcosa nei brani e nella musica rispetto ad Upho?
I brani sono un po' più lunghi, per la felicità di chi diceva che erano troppo brevi in Upho; la musica per il disco in parte è cambiata poiché da tre anni uso solo un'accordatura, una di quelle che ho sempre usato.
Nella mia recensione di Upho ho definito i tuoi brani in vari modi: ‘sonic landscapes’ (paesaggi sonori), ‘shots’, ‘morceaux chitarristici’ alla francese. Quale di questi tentativi ritieni più consono ed aderente alla tua musica?
“Sonic landscapes” è il più calzante dei tre, ma in realtà si tratta dei miei stati d'animo nel momento in cui vengono fuori le musiche, sono 'emotional streams'.
Tu nella vita insegni ‘anatomia artistica’ all’Accademia di Belle Arti di Bari, e dipingi da sempre. Hai partecipato e parteciperai anche a delle mostre all’estero. Tre domande: ci parli delle più importanti, dello stile pittorico che prediligi oggi e dei mutamenti di orientamento artistico che hai avuto nel corso degli anni?
Le più importanti mostre a cui ho partecipato sono, sotto un profilo morale e non materiale, quelle a Shangai , Mosca e Togliatti, visto che in Asia è difficile fare mostre internazionali; quella a San Francisco, in onore del movimento Gutai; sicuramente quella a New York, dove le opere sono state messe all'asta per la raccolta fondi a favore della lotta contro l'AIDS. Poi tutte quelle in Olanda e Germania e Austria, perchè sono i paesi più sensibili e con maggiore considerazione degli artisti oggi; non dimentichiamo quella in Australia ed alcune in Canada e Istanbul e tutte quelle in Grecia, dove la mia recente attività espositiva ha avuto inizio, in occasione delle ultime Olimpiadi, ad Atene. Lo stile pittorico che prediligo è il mio, e in esso si possono vedere tanti riferimenti, influenze e citazioni: qualcosa di Pollok o Shimamoto ad esempio, ma sicuramente l'italianissimo Burri, le cui opere ho conosciuto realmente, da vicino, negli anni 60 a Bari. In realtà ciò che mi identifica, rende riconoscibilissimo e mi caratterizza è la tecnica che ho iniziato ad adottare nei primi anni 60 (ho ancora qualche opera dell'epoca): l'utilizzo del succo di limone come medium, su cartoncino, successivamente esposti al fortissimo calore, quasi a bruciarsi. Ci fu un periodo negli anni 80 in cui andavo matto per i pastelli acquerellabili, perciò poi dall'acqua per i pastelli acquerellabili al succo di limone, ripreso su larga scala negli anni 90, il passo è stato breve, anche perché sono entrambi liquidi trasparenti. I segni si possono vedere in corso d'opera solo contro luce sfruttando i riflessi che genera il liquido sulla carta e ciò rende il tutto abbastanza impegnativo: ecco perché gestire questa fase è un'operazione azzardata.
Che relazioni estetiche ci sono, se ce ne sono, tra le tue due passioni, la musica e la pittura, e nel modo in cui concepisci i tuoi quadri e componi la tua musica?
In entrambi, per dirla alla Robert Fripp dopo il suo incontro con Brian Eno, sono ‘calistenico’, cioè cerco di raggiungere la bellezza velocemente, e contemporaneamente cerco, paradossalmente, di rendere le due attività espressive di grande respiro. Sembra una contraddizione, ma è così.
Quanta parte ed importanza ha l’improvvisazione nei tuoi brani, soprattutto nelle tue frequenti live performances baresi, pugliesi ed in giro per l’Italia?
Tutta la mia musica è ormai solo improvvisazione; sicuramente ci sono delle basi, dei punti di partenza, una sorta di pretesto che sono il canovaccio dei pezzi registrati sui dischi, come per esempio da Upho ancora oggi i brani Negli ann’, Assini e Polimono. Le performances baresi sono state poche, pugliesi di più (Trani, Molfetta), mentre per l'Italia un po' meno (Milano,Perugia,Matera).
Il tuo amore per la musica affonda le radici nel rock degli anni ’60 dove era imperativo essere in una band o gruppo, come si diceva allora. Ce ne ricordi qualcuno con cui hai suonato nella tua città Bari, e non?
Nei Bears ho cantato: il gruppo fu fondato nella settimana di Natale del 1965. The Bears eseguivano cover, dopo c'è stato un trio, negli anni 70, L'estratto dal Bando di Orange, e i brani erano proposti da me. Poi c'è stato un duo di chitarre elettriche nei primi anni 80, Elettriche per hobby, con il chitarrista Antonio Galantino, e quindi un'esperienza davvero utile: sono entrato, con Roberto Emiliano alla batteria, nel gruppo Il Baricentro che aveva avuto esperienze discografiche e col quale se ne stava per iniziare una nuova, sfortunatamente morta sul nascere. Dopo Il Baricentro, sul finire degli anni 80, l'esperienza della rassegna barese di musiche possibili Time Zones con Rosario de Gaetano, e poi con una cantante greco-americana, Justina Claudatus, sul finire degli anni 90. Da allora in poi ho operato sempre in solitudine.
Perché poi invece questa scelta artistica di suonare ed esibirti in perfetta solitudine con la tua chitarra, i tuoi ampli, i tuoi effetti e le tue pedaliere?
Se le primissime esperienze sono state con una chitarra elettrica, la sua leva del tremolo e basta, con l'invenzione del pedalino del loop è stato più facile il gioco di creare una base e sopra sbizzarrirsi con gli assolo. Questo ha permesso l'arricchimento della esecuzione, perché nella base c'è ritmo e percussività e negli assolo la parte lirica grazie anche all'e-bow, una diavoleria elettromagnetica americana inventata nei primi anni 70, di cui ebbi la fortuna di avere in quegli anni un esemplare quasi prototipo, che giaceva con un grande punto interrogativo nel conosciutissimo negozio di strumenti musicali Monachino, in Bari vecchia.
Ci conosciamo da tantissimo tempo, sin dagli anni ’60. Tra i tuoi grandi amori musicali di quegli anni, se ben ricordo, c’erano artisti come i Byrds, David Crosby, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page. Quanto dell’incredibile creatività di quella decade e di quegli artisti c’è ancora nei tuoi brani?
Premesso che non ho mai stravisto per Jimmy Page prima, durante e dopo (nei Led Zeppelin) la sua fortunata presenza negli Yardbirds, i Byrds sono stati e sono ancora una fonte di ispirazione, considerando che sono uno dei più alti esempi di musica della West Coast; Jeff Beck B ed Eric Clapton indubbiamente il meglio del British blues.
Nel corso delle decadi successive e nel terzo millennio invece quali chitarristi e musicisti hai seguito di più, e da quali ritieni di essere influenzato ancora oggi? Hai contatti con qualcuno di loro?
Innanzitutto il norvegese Terje Rypdal, che ho conosciuto personalmente, avendo anche lui partecipato all'edizione del 1988 di Time Zones. Poi John McLaughlin e Allan Holdsworth, che ho visto suonare dal vivo da vicino, essendo stato con il mio amico Vito Caruso nel festival crew a Reading nell'estate19 75. Accanto a questi nomi noti, ce ne sono molti minori e sconosciuti di ‘world music’ sparsi per il mondo: in particolare prediligo le musiche ed i musicisti bulgari e dell'Azerbaijan.
Piero tu hai anche scritto due saggi sui caratteristici ‘trulli’ pugliesi. Quando e come si chiamano? Quanto ti senti legato alla geografia, alla tradizione ed all’arte della tua terra?
Nel 1998 è stato pubblicato il primo saggio bilingue “Sull'Origine dei trulli”. Il secondo dopo dieci anni, nel 2008 “L'albergo dei popoli” e ce n'è un terzo, nel 2010, un aggiornamento del secondo con lo stesso titolo uscito per l'editore Lampi di Stampa di Milano. Sicuramente affondo le mie radici nella nostra cultura, nella sua geografia e tradizione. Penso che la Puglia sia il posto più bello del mondo o, come disse Federico II, la terra promessa.
Quanto credi sia importante la tecnologia per allargare i campi espressivi di chi fa musica oggi, in particolare relativamente ad una scelta strumentale radicale come la tua?
La tecnologia è importante sino ad un certo punto: a prescindere dall'utilizzo del loop e dell'amplificatore, dal vivo potrei fare le stesse cose anche con la chitarra acustica, con o senza pickup magnetico e, in extremis, anche senza l'e-bow, sostituendolo con un limaunghie elettrico o un rasoio da barba portatile.
Immagino tu faccia tutto da solo in studio quando incidi i tuoi brani. Ci spieghi tecnicamente i vari stadi chitarristici di registrazione prima di arrivare ad una ‘take’ definitiva?
Una volta in pace con me stesso nella scelta dell'accordatura, “gironzolo” intorno a 3 o 4 accordi o meglio posture delle dita: per me è una questione di fisicità. Finchè mi fermo quando una successione più o meno definita mi soddisfa, la registro sul pedalino del loop e nel risentirla faccio un percorso similare con la ricerca di un canto, svisando liberamente finchè non ritengo che le cose vadano bene insieme. Infine registro sul cd inserito nel mio masterizzatore antico e validissimo Philips.
Nei brani di Drink ci sono altri strumenti oltre la chitarra? Credi di inserirne qualcun altro in futuro nella tua musica? Elementi come la voce umana, o le percussioni ad esempio hanno qualche chance di rientrare nella tua economia e scelte musicali?
Non ci sono altri strumenti oltre alle chitarre; una volta ho suonato in un chiostro a Rutigliano (in Puglia) e un ragazzo spontaneamente si è avvicinato con delle percussioni metalliche; ho apprezzato molto il suo intervento perchè si è inserito quando ha ritenuto meritevole farlo, anche lui con un senso di improvvisazione molto aperto. A bella posta no, sinceramente. Se i casi della vita mi condurranno ad un progetto, non ho pregiudizi sulla possibilità di realizzare qualcosa di più e di diverso. Se si possono eventualmente prevedere situazioni più articolate volentieri, ma senza che io prenda l'iniziativa.
Come nascono i titoli bizzarri dei brani di Upho (di volta in volta allusivi, sarcastici, fantastici, come ho scritto!) e quelli del nuovo Drink?
Molti sono riferiti ad episodi della mia quotidianità, posti che ho frequentato (Assini o Vassiliki), ciò che la musica stessa mi suggerisce (i coyotes o i condor per esempio), o si tratta di omaggi ad artisti (JJ Cale).
Quali emozioni ti prefiggi di suscitare o ti piacerebbe provocare nel pubblico delle tue live performances e negli ascoltatori dei tuoi due dischi?
Nei confronti del pubblico non mi prefiggo nulla, sono nei suoi confronti sincero, trasparente e in buona fede; se trova piacere nell'ascoltare la mia musica ben venga, la cosa si può proporre e migliorare. Tutto ciò è ben auspicabile.
Ho visto nel tuo profilo Facebook definire ‘alternative’ la tua musica. E’ un’etichetta sintetica di comodo o l’hai scelta di proposito come la più adatta? Quali altri generi citeresti?
Era solo un'opzione di Facebook, ma se dovessi definirmi, sicuramente sono un improvvisatore, uno che suona per il piacere di suonare e perchè ''va altrove”, senza sentirne nemmeno gli acciacchi. È della musica il merito di tutto.
Ci sono dei brani o spezzoni strumentali cui sei più affezionato di altri in Upho e Drink?
Si, in Upho quelli più belli sono Nora (è stato anche la colonna sonora di un video non pubblicato in italia, che si intitolava in greco ‘O Koros Ton Mainadon’ e significa la danza delle menadi), seguito da Assini, Negliann e Polimono, già citati prima. In quest'ultimo disco, ce n'è qualcuno senz'altro per lo meno orecchiabilissimo.
Cosa pensi della scena musicale contemporanea e cosa ascolti?
Di nuovo c'è veramente poco che m’interessa, a parte le rarissime esibizioni di Terje Ripdal, quando non fa hard rock, Jeff Beck quando non fa i vecchi brani. Mi piace Bill Frisell anche se è particolarissimo, alcune cose sue e anche di Jim Campilongo (riconoscente a Roy Buchanan), ed infine i chitarristi o suonatori di tambura bulgari.
A questo punto non mi resta altro che ringraziarti Piero per l’arte ispirata che ci hai e ci stai regalando, sperando tu non demorda nei prossimi anni e continui ad essere così creativo. Me lo prometti?
Si certo. Buon ascolto e... cin cin!
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