Mephisto – 40esimo Anniversario István Szabó
Regia: István Szabó; Cast: Klaus Maria Brandauer, Ildigo Bansagi, Krystyna Janda, Karin Boyd; Rolf Hoppe - Genere: Drammatico - Germania, Ungheria, 1981; Durata: 138 minuti.
40 anni fa usciva nelle sale “Mephisto”, la sublime rappresentazione degli intrecci tra arte e potere composta dal talento di István Szabó. Hendrik Höfgen è un brillante e ambizioso attore di provincia che insegue un posto al sole sullo sfondo delle ferite e delle grandi contraddizioni della Germania del primo dopoguerra. Come gran parte degli artisti dell’epoca, è sedotto dagli ideali bolscevichi, e vorrebbe realizzare attraverso il teatro quella rivoluzione che porterebbe alla reboante espressione sul palcoscenico dei valori del proletariato.
Non sopporta l’immobilismo borghese, incarnato dal tradizionale liberalismo. Detesta il dilagante movimento nazionalsocialista e avverte nitidamente il pericolo di una sua affermazione, in quanto abile a cavalcare - in modo incisivo e concreto - il malcontento delle masse e l’agognato desiderio di riscatto nazionale, retaggio del Trattato di Versailles. Tuttavia, l’amor proprio dell’attore si dimostra sempre più forte dei suoi ideali a buon mercato. E dei suoi sentimenti à la carte. Tradendo la passione viscerale per una ballerina di colore, sposa una donna che non ama, e che appartiene ai ranghi elevati della società verso cui non prova stima, nella speranza di ottenere un biglietto da visita per gli ambienti teatrali che contano. Riesce così a procacciarsi un ingaggio da un’importante compagnia di Berlino e, mettendo in mostra il carisma e tutte le sue abilità attoriali, diventa in poco tempo una personalità conosciuta ed amata nella capitale del Reich. Il partito nazional-socialista sale al potere. Il mondo degli artisti e degli intellettuali si divide tra coloro che scelgono l’esilio volontario e i temerari che provano ad organizzare una resistenza all’interno del proprio Paese. Ma per Hendrik Höfgen il dilemma non è questo.
Lui è combattuto tra una vita da artista libero all’estero, con il rischio di anonimato, e la speranza di consacrarsi quale eroe nazionale in patria, pur attraverso l’accettazione di feroci compromessi. E così Hendrik decide di indossare anche fuori dal palcoscenico la maschera del personaggio che lo ha reso celebre, Mephisto. Per soddisfare la sua sete di successo, svende alla più bieca incarnazione di una forza demoniaca - travestita da chi opera eternamente il bene - quel che resta della sua purezza. “Il teatro ci sarà sempre, non importa quello che succede in Germania”. L’attore riesce a dissociarsi dalla realtà e a forgiare un’identità parallela nella bottega che alberga dietro le quinte. In questo modo Höfgen trova riparo dall’escalation di violenza che imperversa tra le strade di Berlino. Mistifica gli eventi che accadono all’esterno e li adatta ad un copione maggiormente accettabile per la sua coscienza che, di tanto in tanto, chiede di essere ascoltata. Del resto, fa parte della versatilità attoriale sapersi adattare ai cambiamenti e trovare una nuova collocazione nella società che si evolve. Il teatrante è una figura molto corteggiata dai detentori del potere. È seguito e amato dal popolo, e le sue gesta possono risultare essenziali per la propaganda di Stato. Alle alte sfere del partito nazista non sfugge la straripante popolarità di Mephisto tra la gente da ammaestrare. Höfgen riceve dai gerarchi della svastica le chiavi del teatro tedesco e diventa, più o meno consapevolmente, a titolo di contropartita, una pedina manovrata dai burattinai per consolidare il potere all’indomani delle vittoriose elezioni del 1933. Come atto di fede verso il partito con cui ha stipulato il pactum sceleris, inizia a denunciare alle autorità i colleghi dissidenti a lui invisi. Soffoca le istanze di ribellione dei suoi amici di gioventù, i pionieri dell’effimero teatro rivoluzionario, pur cercando di preservarli dalle rappresaglie naziste attraverso il credito che è convinto di vantare presso i palazzi del Terzo Reich. Si trasforma, a tutti gli effetti, in una copertina della Germania nazista. “Libertà… ma a che serve?” Hendrik Höfgen è un uomo tremendamente solo. E lo sa bene. Lo avverte nitidamente quando si ritrova a fare i conti con i momenti in cui la maschera che indossa non è saldamente incollata al viso. La stretta del potere sanguinario è sempre più soffocante nel nome della purezza della razza e dei piani di egemonia tedesca. E ormai non è rimasto nessun portatore di una salutare boccata di ossigeno. Non troppo distante dall’atmosfera opprimente della capitale del Reich è la Francia, la terra promessa fino all’occupazione tedesca agli albori del secondo conflitto mondiale. La Parigi degli anni Trenta rappresenta la base eletta da molti esuli del Terzo Reich, il contesto ideale dove rimbombano le grida contro il giogo del nazifascismo. Nella capitale transalpina sono rifugiate, per motivi diversi, la moglie e l’amante storica del protagonista: la prima espatriata volontariamente con l’affermazione elettorale del partito nazional-socialista, la seconda espulsa dal governo perché la sua carnagione è troppo scura per il prototipo di Übermensch. Höfgen, in trasferta per un evento all’ambasciata tedesca di Parigi, incontra entrambe le donne. Riassapora lo sfavillante erotismo con la ballerina Juliette, colei che non ha mai avuto il coraggio di amare ufficialmente. La ragazza, ancora innamorata del suo partner di letto, gli chiede di restare con lei e di iniziare un nuovo percorso lontano dalle follie naziste. Di tenore più sobrio è la reunion con la consorte Barbara. Seduti al tavolino di un café del centro, i due sono consapevoli della fine del loro rapporto. D’altronde, il Ministero del Reich ha già avviato la procedura per il divorzio di Stato: non è accettabile che un sovrintendente alla cultura sia legato ad una fuggiasca sovversiva. Barbara prova a mettere Hendrik di fronte al riflesso della sua immagine. L’immagine ridicola di un giullare prono ai sanguinari, di una marionetta insensibile alla privazione delle libertà fondamentali, di un mercenario che baratta quotidianamente la dignità di artista e di uomo con una manciata di marchi e di applausi. Come l’antica rivale in amore, benché animata da sentimenti diversi, Barbara prova a convincere l’attore a riscattare la sua identità lasciando definitivamente la Germania al suo triste destino, e diffondendo il suo messaggio artistico dove la censura non taglia a pezzetti la creatività. Ma Mephisto ha siglato un contratto, e l’inadempimento delle prestazioni ivi previste comporta un risarcimento estremamente oneroso. L’attore, toccato l’apice del successo, non è pronto per un repentino ritorno all’oblio. Passione e diritti non valgono una fragorosa caduta degli dei. E così resiste ai richiami del passato. Prova a comporre nuove narrazioni nel velleitario tentativo di autoassolversi, di legittimare le proprie scelte di fronte agli interlocutori e al proprio specchio. Del resto, un intero Paese non può emigrare, ed è troppo facile emettere sentenze di condanna dall’estero. Mentre passeggia per i viali della cultura parigina, si convince che in Francia sarebbe solo uno dei tanti interpreti. E conclude che la libertà non è altro che un concetto definito nel dizionario dei perdenti. “Sparisci, attore!”. Hendrik Höfgen percepisce la popolarità raggiunta e le attribuisce un rilievo sconfinato, quasi divino, per il Reich. È il beniamino di molti gerarchi nazisti, persino di Göring, e ritiene di avere un’accesa influenza su di essi. Finanche di orientare le loro scelte. Ma la dittatura ha ormai consolidato i suoi tentacoli all’interno della società tedesca. Si sente invincibile, ed è pronta a farsi largo nel pianeta con una nuova guerra. Si affievolisce la necessità di ricorrere ai suadenti mezzi umani di propaganda.
E il totalitarismo, si sa, non va spesso a nozze con arte e cultura. Disprezza gli uomini dotati di talento creativo. La cultura è pericolosa, ingovernabile, destabilizzante: chi se ne fa portavoce è una mina vagante, il cui scoppio va prevenuto impugnando una pistola. Perché mai un misero teatrante dovrebbe avere un’importanza tale da prendere parte alle decisioni politiche? Mephisto deve limitarsi ad interpretare la creatura di Goethe e ogni altro personaggio secondo i crismi dell’identità tedesca. Deve nascondersi dietro i diktat dell’entourage del Führer. Fuori dal palco, poi, non ha la minima rilevanza. Non può permettersi di suggerire il metodo di azione del repulisti delle SS. E così, quando insiste nell’intercessione a favore di un amico additato come traditore, viene brutalmente ridimensionato. Qualora alzasse la cresta e provasse a far sentire la sua voce in merito ad affari che non lo riguardano, lo attenderà una fine tremendamente infausta. Höfgen si riscopre un puntino insignificante in un gioco al massacro al quale non ha i mezzi per partecipare. Le luci ingannevoli della ribalta lo inseguono, lo perseguitano in mezzo alla vastità del buio ottenebrante della storia. Non ha un fortino ove trincerarsi. Gli inganni della recitazione sembrano non bastare più. “Ma cosa vogliono da me? In fondo, io sono solo un attore” Tratto dal romanzo di Klaus Mann, “Mephisto” è la sontuosa tappa iniziale della fortunata trilogia su arte, potere e decadenza, nonché primo atto del convincente sodalizio tra il regista ungherese István Szabó e l’attore austriaco Klaus Maria Brandauer. Il cineasta magiaro, di origine ebraica e molto sensibile agli eventi che hanno costellato la storia della sua nazione, entra di diritto tra i grandi del cinema, conosciuti ed apprezzati a livello mondiale, un anno dopo l’Orso d’Argento, e la prima nomination all’Oscar come Miglior Film Straniero, ottenuti con la deliziosa storia d’amore narrata ne “La fiducia”. “Mephisto” si aggiudica la prestigiosa statuetta hollywoodiana per la pellicola straniera, e riceve molti altri riconoscimenti insigni, tra i quali spiccano il David di Donatello al film ed il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes. I due successivi capitoli della saga di Brandauer, “Il colonnello Redl” e “La notte dei maghi” (anch’essi nominati, ancorché non vincitori, al Premio Oscar per il Miglior Film Straniero), segnano il momento aureo di István Szabó nel corso gli anni Ottanta. Successivamente, “Mephisto” – così come l’intera, e ricchissima, filmografia del regista ungherese – cade parzialmente, ed ingiustamente, nel dimenticatoio. Soprattutto nel vecchio continente. Quasi inesistenti nel commercio, le pellicole di Szabó albergano pressoché unicamente nelle videoteche di studiosi, critici e cinefili esigenti. Un oblio ingeneroso verso chi ha magistralmente sublimato in sceneggiatura uno spaccato di storia e di società ancora fervidamente vivo nelle nostre coscienze. Da riscoprire. Da divulgare. Forse da insegnare a scuola.
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